Era domenica. L'attacco scattò con il buio, un po' prima delle 21 (un po' dopo le 16, ora italiana). Il 7 ottobre 2001 gli Stati Uniti reagirono così all'attentato terroristico
contro le Torri gemelle. Solo nella primissima ondata di fuoco, sottomarini e bombardieri lanciarono circa 50 missili Cruise di tipo Tomahawk.
Dopo tre quarti d'ora George W. Bush e Tony Blair annunciarono che le forze aeree statunitensi e britanicche stavano appoggiando l'offensiva terrestre dell'Alleanza del Nord che puntava su Kabul e sulle altre grandi città afghane. Lo scopo dichiarato era quello di colpire i reparti talebani e quelli di Al Qaida, catturare o uccidere il capo dei
terroristi Osama Bin Laden, ritenuto il responsabile dell'attentato,
distruggerne le basi e rovesciare il regime del mullah Omar che lo proteggeva. Sembravano essere tutti obiettivi a portata di mano, nel breve-medio periodo.
In realtà è stata ed è tuttora una guerra lunga, logorante, sanguinosissima. Bin Laden è stato ucciso in
Pakistan lo scorso maggio, dieci anni dopo, anche se l'organizzazione
- che pure ha subito altri colpi, anche recenti - non è ancora del tutto sconfitta.
L'Afghanistan appare ancora diviso da conflitti economici, culturali e
religiosi, dilaniato da attentati e raid su civili. Lontano il processo di
pacificazione e democratizzazione immaginato per quel Paese diventato
culla del fondamentalismo islamico.
Amnesty International ha dichiarato che
il Governo di Hamid Karzai e i suoi alleati non hanno mantenuto
molte delle promesse fatte alla popolazione afghana. “Nel 2001, dopo
l’intervento internazionale, le aspettative erano elevate, ma da allora i
passi avanti verso il rispetto dei diritti umani sono stati
pregiudicati dalla corruzione, dalla cattiva gestione e dagli attacchi
degli insorti, i quali mostrano un disprezzo sistematico per i diritti
umani e le leggi di guerra”, ha dichiarato Sam Zarifi , direttore di Amnesty International per l’Asia e il Pacifico.
L’analisi di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani
in Afghanistan ha riscontrato alcuni progressi nel campo dell’adozione
di leggi che richiamano i principi fondanti delle democrazie, riducono la discriminazione nei
confronti delle donne che oggi hanno diritto a studiare e a essere curate.
Con la fine delle restrizioni imposte dai talebani, l’accesso
all’istruzione è notevolmente migliorato: le scuole sono ora frequentate
da sette milioni di alunni, il 37 per cento dei quali è costituito da
bambine. All’epoca dei talebani, i bambini che andavano a scuola erano
meno di un milione, con una frequenza femminile quasi pari a zero.
Al contrario, nei settori della giustizia, delle operazioni di
polizia, della sicurezza e sulla questione degli sfollati non si sono
registrati passi avanti o la situazione si è persino deteriorata. Le
condizioni di vita della popolazione che vive nelle zone maggiormente
colpite dalle azioni degli insorti sono peggiorate.
In questo decennio un crescente numero di civili afghani ha fatto le
spese del conflitto armato. Dal 2008-2009, circa tre quarti
delle vittime sono stati causati dagli attacchi dei gruppi di insorti,
il resto dalle forze internazionali e afgane.
Nei primi sei mesi del 2011 le Nazioni Unite hanno registrato 1.462
vittime civili, un drammatico record. L’80 per cento delle perdite
è stata attribuita a "elementi antigovernativi" e almeno la metà dei
morti e dei feriti è stata causata da attacchi suicidi e da ordigni
esplosivi.
Il conflitto ha prodotto quasi 450.000 profughi interni. La
maggior parte di essi si trova nelle province di Kabul e Balkh, spesso
in condizioni di povertà estrema, con limitato accesso a cibo, servizi
igienici adeguati e acqua potabile.
“Gli alleati internazionali dell’Afghanistan, compresi gli Usa,
hanno detto più volte che non abbandoneranno il popolo afgano. Devono
rispettare questo impegno, per assicurare che la comunita’
internazionale, nel cercare una via d’uscita dal paese, non metta da
parte i diritti umani” ha sottolineato Sam Zarifi, di Amnesty International.
Al 9 settembre 2011 i militari stranieri operanti nell'ambito della missione Isaf erano 130.670; 49 gli Stati che stanno fornendo a vario titolo truppe e mezzi. L'Italia, con 3.918 soldati schierati, risulta avere il quinto
contingente della coalizione, dopo quelli degli Stati Uniti (90.000), Regno Unito
(9.500), Germania (4.998), Francia (3.935) e prima dei contingenti polacco (2.580), romeno (1.948), turco (1.840) e spagnolo (1.523).
Per quanto riguarda il nostro Paese si tratta del numero massimo fin qui
raggiunto. Nei prossimi mesi, a detta delle fonti ufficiali, ci sarà un
graduale disimpegno.
«Quest'anno stiamo sopportando il massimo sforzo in
Afghanistan, con circa 4.000 militari sul campo, che rimarranno fino alla fine
dell'anno. Dal 2012, ma non dai primi mesi, è prevista la progressiva diminuzione,
che sarà accelerata nel 2013, per arrivare al 2014 con il Paese restituito al
controllo del governo afghano», ha detto il ministro Ignazio La
Russa, a margine din un recente vertice tra ministri della Difesa della Nato a Bruxelles.
Il presidente degli Usa Barack Obama ha già annunciato il ritiro di circa 30.000 soldati americani dal
territorio afghano entro l'estate 2012 . E nel 2014 seguirà
la smobilitazione delle truppe Nato e anglo-statunitensi. Si avvicina così il momento dei titoli di coda per l'intervento militare che già fin qui ha alle spalle una lunga scia di sangue. Stando a dati aggiornati al 4 ottobre 2011, tra l'operazione di guerra vera e propria Enduring freedom e la Missione Isaf , i soldati della coalizione morti sono 2.676 contando anche alcuni americani deceduti in azione sia in Pakistan che in Uzbekistan nonché 11 agenti della Cia. L'Italia conta 44 caduti.
Alberto Chiara
Guerra, corruzione, oppio ed eroina sono lo zoccolo duro della storia politica, economica e sociale dell’Afghanistan da decine d’anni. Nessuno ha mai potuto dimostrare qual è il seme e quale il frutto in questo circolo vizioso di violenza, dolore, disperazione e distruzione. Ma in fondo scoprire se viene prima l’uovo o la gallina non interessa più a nessuno. Tutti sanno che narcotraffico, corruzione, e conflitto sono legati insieme, continueranno o finiranno insieme. Per ora sembra che tutto continui come prima, con più disperazione e senza più pazienza da parte di chi voleva un futuro diverso per questa terra martoriata da mezzo secolo.
Dieci anni dopo l’inizio della nuova guerra che vede gli Stati Uniti protagonisti, le coltivazioni di papavero da oppio sono aumentate di molto in valore totale anche se sono leggermente calate in quantità a causa delle produzioni ridotte nelle province meridionali di Helmand e Kandahar, le regioni più produttive d'oppio del paese. Ma il Paese rimane il problema di narcotraffico numero uno del mondo, senza vedere per ora una soluzione vicina e sostenibile, visto che il business del narcotraffico va alla grande nelle province del nord e nord-est di Badakhshan, Baghlan e Faryab, così come nelle province meridionali e occidentali di Herat, Ghor e Kapisa. Baghlan, Faryab, Kapisa e Ghor erano tutte terre libere dall’oppio nel 2010.
Oggi solo 16 delle 34 province sono “pulite”, fuori del giro del narcotraffico, cioè circa il 20% di meno rispetto all’anno scorso. La campagna internazionale per la riduzione dell’economia oppio-eroina va dunque nella direzione sbagliata e rappresenta un'inversione inquietante rispetto ai grandi sforzi e alle speranze di tagliare la produzione di oppio, una fonte di reddito importante per l'insorgenza talebana. Quest’anno i prezzi dell'oppio secco sono aumentati del 306 per cento, a 281 dollari al chilo dai 69 dollari dell'anno scorso. È stato il secondo anno consecutivo di forti aumenti, dopo l’altra impennata dei prezzi attribuita l’anno scorso ad una malattia dei papaveri che aveva distrutto quasi la metà del raccolto. "Oggi abbiamo prezzi mai visti prima dal 2004," ha detto Jean-Luc Lemahieu, rappresentante in Afghanistan dell’ l'Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine. "Questo non è il solito business criminale che eravamo abituati a contrastare: con questi prezzi non c’è coltivazione alternativa che possa convincere i contadini ad abbandonare l’oppio”.
Il denaro facile chiede protezione ed armamento e rigenera la
violenza che l’ha prodotto come testimoniano l’altissimo livello di armi
in circolazione in Afghanistan per uso nel conflitto interno e per i
traffici da e verso i paesi limitrofi. Mohammad Ibrahim Azhar,
vice ministro antidroga, sottolinea l’alto prezzo in vite umane di
poliziotti e contadini pagato per l’eradicazione forzosa del papavero da
oppio. Le vittime si contano ormai a centinaia che si aggiungono alla
sofferenza diffusa causata dalla vita precaria, l’insufficienza degli
aiuti agricoli e la scarsa sicurezza che regna ovunque, senza alcun
vantaggio evidente per le province che hanno abbandonato il
narcotraffico. I Talebani invece offrono protezione armata e addirittura
credito ai produttori di oppio. Sono strumenti di propaganda che
convincono facilmente in alcune regioni il 90% della popolazione a farsi
narco-produttori. “L’occasione fa l’uomo ladro” ha detto Lemahieu, “ma
quando la domanda globale di eroina e la disperazione locale sono così
forti non sarebbe giusto semplificare l’analisi del problema
condannando solo i Talebani o i produttori di oppio".
Ma è anche vero che gli alti guadagni dell’eroina provocano dipendenza,
quasi come quella dei consumatori; infatti nelle province del Nord il
94% dei produttori si dichiarano soddisfatti di una buona situazione di
sicurezza, ma non per questo intendono rinunciare alle produzioni
illecite. L’Afghanistan del 2011 fornisce circa il 90 per cento dell'oppio mondiale. I
contadini delle province di Helmand e Kandahar, che insieme
rappresentano oltre il 70 per cento della coltivazione del papavero
afgano, continuano a ripiantarlo nonostante il fatto che il governo
cerca di sradicare le coltivazioni con campagne di eliminazione che
l’anno scorso hanno raggiunto 10.000 ettari.
Quando il Presidente George W. Bush iniziò la campagna d’Afghanistan
contro i Talebani annunciò che lo sforzo avrebbe richiesto agli
americani mesi di forte pazienza. Di mesi ne sono passati 120 e sono
previsti altri tre anni di presenza delle truppe americane fino al 2013.
Circa 1700 soldati americani hanno perso la vita e decine di migliaia
sono stati feriti. Per la maggior parte di loro si tratta di ferite
invalidanti, che non minacciano la vita, ma impediscono un
re-inserimento nella vita produttiva ordinaria. Per tutti loro, quasi
tutti giovani, la legge americana di protezione sociale dei veterani
obbligherà il governo USA a pagare alti costi per 60 o 70 anni,
nell’ordine di 100.000 dollari a persona, e quindi miliardi di dollari
per 60 anni consecutivi. Di fronte a un bilancio così pesante la
pazienza degli americani è finita. La maggioranza di loro, 6 su 10
secondo un sondaggio CBS, pensa che l’America non dovrebbe essere
coinvolta nel conflitto Afgano.
Sandro Calv
ani,
Direttore
Centro ASEAN sugli Obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite, Bangkok, Thailandia