C’è chi telefona, chi si fa il tè, chi russa. Io, sdraiato sul pavimento di questa casa diroccata che è diventata una specie di ostello gratuito per giornalisti, cerco di mettere ordine nei pensieri. Siamo a Taloqan dove due giorni fa, dopo un lungo inseguimento cominciato in Tagikistan, da dove sono entrato in Afghanistan, ho raggiunto le truppe dell’Alleanza del Nord che avanzano verso la capitale Kabul. Inseguimento perché i progressi sono velocissimi, quanto la ritirata dei talebani. Non che manchino gli scontri o i pericoli. Ieri sette giornalisti e un po’ di soldati sono morti in un’imboscata che, a sua volta, è stata figlia dell’euforia e dell’eccesso di fiducia. L’Alleanza, però, macina chilometri di giorno in giorno e la vittoria si fa sempre più vicina. Gli uomini orfani del comandante Massoud, ucciso da un kamikaze poco prima dell’invasione, sono perfettamente attrezzati: uniformi nuove, kalashnikov lucidi, ricetrasmittenti ancora avvolte nella plastica a bolle, jeep senza un graffio. Visito un carcere per talebani prigionieri di guerra: gente smarrita e coperta di stracci, nulla che faccia pensare a un’armata di guerriglieri già capace di terrorizzare un popolo e proteggere Osama bin Laden.
Queste immagini del 2001 mi tornano in mente ora, anno 2021, mentre il contingente italiano, dopo vent’anni, 54 morti (tra i quali una cooperante) e 9 miliardi di spese (la più lunga e costosa campagna militare nella storia del nostro Paese), lascia l’Afghanistan. Perché allora fu facile vincere una guerra che, con ogni evidenza, era stata ben preparata, sobillando le tribù, rifornendole, preparandole ad abbandonare al loro destino i talebani. Mentre adesso è malinconico lasciare un Paese dove ci siamo impegnati tanto senza riuscire a vincere la pace. Lo sgarbo degli Emirati Arabi Uniti, che non hanno concesso il passaggio nel proprio spazio aereo al velivolo che portava a Herat giornalisti e militari per il passo d’addio, in fondo è stato emblematico: non vendiamo più armi agli emiratini, in Libia stiamo su fronti opposti, il mondo è andato avanti, davvero eravamo ancora in Afghanistan?
I primi soldati italiani arrivarono a Bagram il 30 dicembre 2001: erano 11 in tutto. Poi tutto crebbe rapidamente. A Kabul arrivarono i carabinieri del Tuscania e i soldati del Cavalleggeri Guide. Il 3 ottobre 2002 la Camera decise di inviare in Afghanistan mille alpini, avvisaglia di un impegno che avrebbe toccato l’apice di 2.250 uomini, assistiti da mezzi di terra e aviazione. Nel 2003, infine, dopo che il Consiglio di Sicurezza Onu decise di estendere il mandato della forza internazionale su tutto il territorio afghano, la base delle operazioni italiane fu spostata a Herat, in una zona calda nella parte occidentale del Paese.
All’inizio, con gli americani che impazzavano, sembravamo i parenti poveri. Ricordo come se fosse ora il generale Giorgio Battisti, il primo comandante del contingente italiano della Missione Isaf a Kabul (poi generale di corpo d’armata e capo di stato maggiore del Comando delle Forze Terrestri), che si spazzolava gli scarponi nel giardino dell’ambasciata italiana, dov’era acquartierato. Era la primavera del 2002. Ma in poco tempo, il coraggio, la disponibilità, la professionalità e lo spirito di adattamento dei soldati italiani conquistarono tutti, afghani compresi. È difficile raccontarlo ma era facile vederlo: nei mercati, nelle scuole, nei villaggi dove non c’era nulla i nostri si muovevano con un’efficienza discreta spesso difficile ad altri. Non era italiani brava gente, era italiani gente capace. E anche negli avamposti i soldati italiani non temevano confronti.
È chiaro però che il bilancio della missione “nostra” non può essere tracciato senza essere inserito nel bilancio della missione collettiva, internazionale. E qui le cose sono molto meno esaltanti. La spedizione afghana del 2001 aveva una ragione reale, concreta e comprensibile. All’ombra dei talebani, Osama bin Laden aveva organizzato gli attenti delle Torri Gemelle. In un giorno, aveva ucciso quasi 3 mila persone. Il luogo era circoscritto, gli Usa. Ma le vittime erano originarie di 90 diversi Paesi, quello era un crimine contro l’umanità. Aveva una logica, e anche una giustificazione politica e morale, il tentativo di sradicare Al Qaeda (responsabile peraltro di molte altre stragi) e di abbattere il regime che la proteggeva. Facciamo il confronto con l’Iraq del 2003: una guerra di conquista con ragioni inventate (le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein) che generò un enorme bagno di sangue.
Però, appunto: vincere la guerra fu facile. La pace, tutta un’altra storia. Vent’anni dopo, pare che chiaro che il difetto stava nella premessa. Cioè nell’idea che fosse possibile non solo eliminare un regime odioso ma anche prendere un Paese intero, rivoltarlo come un calzino e avviarlo su una strada completamente nuova. Gli Usa, da soli, hanno speso più di mille miliardi di dollari per questo progetto, roba da prendere l’Afghanistan e rifarlo nuovo. E ancora nel 2019, dice l’Onu, sono stati uccisi più di 10 mila civili.
Intanto i talebani, che nel 2001 fustigavano gli afghani ed erano riconosciuti nel mondo solo dal Pakistan e dall’Arabia Saudita, per il resto alleati dell’Occidente, hanno ottenuto una specie di riconoscimento ufficiale (condizione indispensabile per avere un ritiro come questo, non punteggiato da agguati e attentati) sedendosi al tavolo delle trattative con gli uomini del Governo Usa, dopo che una parte consistente dell’Afghanistan è già ricaduta sotto il loro controllo. Il resto seguirà quando il resto delle truppe internazionali sarà tornato a casa: o per via delle armi, che ai talebani non sono mai mancate, o grazie alle elezioni, che il fragile Governo, democratico in apparenza e tribale nella sostanza, sarà comunque costretto a concedere.
Buono o cattivo che fosse, il progetto era irrealizzabile. E il fatto che poi si sia provato e riprovato altrove, dall’Iraq alla Libia alla Siria, non ha certo contribuito a migliorare le cose. Dopo vent’anni, arrivato il momento di abbandonare il campo, è questa la lezione fondamentale della missione afghana. Meditiamola. E onoriamo i 54 italiani che con il loro sacrificio hanno onorato il nostro Paese, il Paese degli afghani e ci hanno aiutato a capire.