Un uomo giace riverso su una spiaggia, le braccia distese lungo il corpo, il volto piegato a sinistra. Il ricordo non può che andare al piccolo Aylan, il bambino siriano di tre anni trovato morto su una spiaggia turca.
A prendere il suo posto, in questo scatto, in bianco e nero per una scelta che è al tempo stesso estetica ed etica, è l'artista cinese Ai Weiwei.
Il messaggio è chiaro e netto, una sferzata: Aylan è tutti noi, noi tutti siamo Aylan. È la risposta dell'artista cinese alla tentazione dell'Europa di chiudere le porte ai migranti. La condanna di una politica che da una parte è restia a intervenire nei Paesi d'origine per risolvere i conflitti e dall'altra non sa offrire risposte adeguate al flusso epocale dei migranti. Con quest'immagine-gesto potente, Ai Weiwei ammonisce che l'Europa, con tutti i suoi valori, la sua civiltà, muore ogni volta che ricaccia in mare chi cerca una speranza.
È, anche, una lezione durissima sul senso profondo dell'arte indirizzato a chi ha osato insudiciare un'immagine che può e deve restare un'icona con una satira offensiva e greve, come ha fatto Charlie Hebdo immaginando il piccolo Aylan diventato adulto che si trasforma in un molestatore, con una bieca allusione ai fatti di Colonia.
No, la verità è che Aylan è tutti noi, che noi tutti siamo Aylan. Se i dadi della sorte avessero estratto un numero diverso, anche la nostra esistenza avrebbe potuto arenarsi su quella spiaggia.
La sensibilità di Ai Weiwei per la tragedia dei migranti non è nuova. In questo periodo l'artista cinese si trova nell'isola greca di Lesbo, una degli approdi dei flussi, dove sta lavorando a un progetto in memoria dei profughi morti. Nei giorni scorsi Ai Weiwei ha deciso di sospendere la sua mostra Ruptures in Danimarca, in segno di protesta per la decisione di Copenaghen di confiscare beni di valore ai richiedenti asilo.
Su un milione di profughi arrivati nel 2015, 270 mila sono minori, 26 mila non accompagnati. Di questi, diecimila svaniscono nel nulla...