«Mi rivolgo ai miei colleghi e dico che forse noi che patiamo meno questo blocco dell’attività dovremo autotassarci e mettere le nostre energie a disposizione delle centinaia di lavoratori del mondo dello spettacolo per permettere a queste persone di superare questo guado senza troppi patimenti. Autotassiamoci». Renato Zero lancia il secondo capitolo della sua trilogia Zerosettanta in un momento delicato per il nostro Paese e chiama tutti alla responsabilità.
Renato, tu sei sempre stato un rivoluzionario. Ma la tua rivoluzione non è mai stata quella di spaccare le vetrine. Lanceresti un appello a chi sta manifestando in questi giorni anche in modo violento?
«La rabbia è un sentimento deprecabile. A volte può essere una valvola di scarico, un momento dove dobbiamo in qualche modo liberarci di certi pesi, di certe contrarietà. Ma la rabbia va indirizzata sapendo che, se spesa bene, può diventare energia. Quando invece te la prendi con la vetrina di Gucci, sapendo che lì lavorano molte persone e che quei danni li pagheremo tutti, anche chi ha compiuto quell’azione violenta, non risolvi nulla. Anzi si peggiora la situazione perché mentre in una condizione pacifica il manifestare diventa un modo legittimo di far sentire il proprio peso e far valere i propri diritti, se si usa la violenza si vanifica anche l’impegno e il lavoro di tanti che invece non sono dei facinorosi, ma che vogliono risolvere un problema esistenziale importante. La violenza va a smorzare le intenzioni di chi vorrebbe una Italia efficiente e di chi vorrebbe un Governo davvero partecipe».
In questo secondo disco ci sono anche canzoni di protesta. Che Renato ci racconti?
«Nei tre volumi c’è Renato in tutte le sue sfaccettature. Nel primo c’è un Renato forse un pochino più roccheggiante che si rifà agli albori quando andavo a infrangere la tradizione di certe canzoni italiane, nel secondo un Renato più polemico, c’è una canzone di protesta. Nel terzo, che uscirà il 30 novembre, ci sarà ancora un altro episodio dove ho spinto sull’acceleratore per completare il cerchio. Ho fatto in modo di essere soddisfatto di questo riepilogo, di una messa a punto di un tagliando che a 70 anni era necessario che si facesse bene».
Polemica, ma anche tanto amore e solitudine. In che rapporto sono questi due sentimenti?
«La solitudine è come le scarpe o i vestiti: di diversi numeri e taglie. Quando indossi la solitudine deve essere possibilmente della tua misura sennò diventa sofferenza. Se una solitudine ti calza bene vuol dire che può essere una compagna di vita e devi imparare a conviverci. Sapendo anche che quando l’amore subisce ha delle pause di espressione e di partecipazione, la solitudine approfitta, fa capolino e vuole sedurti. Lì la guerra si fa interessante perché l’amore, per sopravvivere, deve passare una serie di impacci e contrarietà, che non sono solo la solitudine. La resistenza dell’amore viene messa a dura prova più che per altri sentimenti. La solitudine se si afferma diventa una patologia. E la solitudine più brutta è quella costretta, quando sei costretto a berti la solitudine, a nutrirti di solitudine. Quando c’è qualcuno o qualcosa che ti spingono a sposarla. Io ho visto tanta gente vivere fasi così dolorose della vita e devo dire che sono persone che sono morte prima della chiamata definitiva. Quella è l’opzione che più mi spaventa nella vita: dover subire la solitudine. Ma anche dover subire l’amore è brutto. L’amore non si può subire. Si può abbracciare, condividere, ma non subire. Ne sanno qualcosa anche le donne vittime di femminicidio che hanno subito l’amore e questo lo trovo francamente terribile».
Che pensi della fede?
«La fede non è un elemento opzionabile. Una volta che tu hai la possibilità e la capacità di incamerarla poi te la tieni. Qualcuno ha detto che la fede può vacillare e subire battute d’arresto. Sarà così per molti perché il controllo di questi sentimenti e realtà è sempre molto difficile da gestire. Ma devo dire a me la fede ha aiutato moltissimo. E l’ho ricevuta in dote da una famiglia che non solo era credente cattolica, ma che aveva delle radici molto profonde, con una fermezza nel vivere, nello spendersi, nell’avere dei rapporti costanti e continui con gli altri senza formalità. Credo che la fede non voglia targhe e numerazioni, ma che sia uno stato spirituale che, nel suo insediamento, vuole trovare terreno fertile. In certe categorie, come i cinici, non attecchisce perché alla fede non interessano quei soggetti. Ma io la fede la raccomando. A chiunque capitasse di imbattersi nella fede dico: “Fatela dormire con voi, offritele ospitalità, non la lasciate andare”».
foto di copertina, credits Roberto Rocco