Il miracolo della vita, da queste
parti, ha tanti nomi. Uno è quello
di Amir, 6 anni, che quando
mi vede entrare nel tugurio saltella
allegro e corre a chiamare
gli amici. Ci parliamo a gesti ma
in un attimo arrivano un sacco
di ragazzini, sporchi, qualcuno
anche lacero, ma festosi.
Tirano fuori
da chissà dove degli ombrellini colorati
e improvvisano una piccola festa,
una macchia coloratissima nel buio
delle baracche.
Munir, il padre di Amir, aveva un
piccolo negozio di merceria nei pressi
di Aleppo, in Siria, proprio in una delle
zone più battute dai combattimenti. È
scappato portando con sé la famiglia.
Ancora in territorio siriano il piccolo
convoglio di automobili in cui viaggiava
è stato mitragliato dagli aerei di
Assad, lui è
nito fuori strada e si è rotto
una clavicola. In quelle condizioni è
riuscito a proseguire, entrare in Iraq,
schivare le milizie dell’Isis e in
ne,
900 chilometri dopo, ad approdare a
Erbil, dove almeno ha trovato un ospedale
che l’ha operato e un riparo in un
garage mai
nito di costruire. Non ha
più nulla, se non un
glio che riesce
ancora a sorridere.
Di bambini come Amir, oggi, è pieno
il Kurdistan, la regione nel Nord
dell’Iraq che, con i suoi valorosi e ormai
famosi peshmerga, fa da bastione
contro l’avanzata degli estremisti
islamici. Dalle zone cristiane dell’Iraq
come Mosul o la Piana di Niniveh, ma
anche dalla Siria, sono arrivati due
milioni e mezzo di profughi, quasi
700 mila dei quali sono oggi stanziati
nel capoluogo Erbil. Pochissimi hanno
trovato sistemazione.
Quasi tutti
vivono da 7-8 mesi in container, sotto
le tende, in baraccopoli di plastica e
lamiera sorte ovunque ci fosse spazio,
anche all’ombra dei grandi alberghi.
IL PALLONE E LE IMMONDIZIE
La solidarietà
non è mancata. Ma i bisogni
sono enormi, e si può capire l’impatto di due milioni e mezzo di persone che
hanno perso ogni avere su una regione
di quattro milioni e mezzo di persone
impegnate, tra l’altro, a difendersi da
un nemico spietato e brutale.
Tanto
più che dall’idea di un’emergenza acuta
ma breve si sta passando a ben altri
scenari: nessuno lo dice ancora apertamente,
ma si prevedono altri due
anni di questa vita.
Eppure, quei piccoli miracoli non
smettono di correrti intorno, di chiamarti,
di accoglierti.
Ghassan mi porta
un pallone sgonfio e scambiamo
due palleggi. Lui, con gli amici, gioca
in uno spiazzo pieno di immondizie
sul bordo di una delle strade periferiche
più traf
cate di Erbil, la cosiddetta
Cento Metri. I bambini sono diventati
bravissimi a muoversi sul ciglio della
carreggiata senza farsi arrotare dalle
macchine.
Afef, 7 anni, aiuta la madre
e lava i piatti per tutta la famiglia. Mi
guarda da sotto in su e indica con l’orgoglio
del lavoro ben fatto le stoviglie
ammonticchiate e gocciolanti.
Imad mi
tira per un braccio verso la “stanza” in
cui vive con i genitori, due fratelli e due
sorelle. Vuole mostrare Halima, la sua
sorella grande, stesa sofferente su un
tappeto: è stata operata al fegato, spiegano
attraverso l’interprete, ma non ha
medicine, nemmeno il più blando degli
antidolorifici.
Persino Rani, il bambinetto con la cuffia gialla, nato profugo
nel campo, mi prende il dito e cerca di
succhiarlo, mentre la madre mostra i
barattoli di latte in polvere ormai vuoti.
Anche i miracoli, però, hanno bisogno
di manutenzione.
Quanto tempo
abbiamo prima che questi bambini
perdano il sorriso? Quanto potranno
resistere senza una vera scuola, senza
giochi, senza scarpe o persino le calze?
Con i padri distrutti dal far nulla, dal
non poter provvedere alla famiglia,
che in una società patriarcale come
quella del Medio Oriente vuol dire
perdere la faccia, il ruolo, il senso della
vita? O con le madri costrette a sopperire
a tutto perché anche qui, come in Europa, la donna lavora due volte
e nel disastro è poi quella che regge?
Per questo Famiglia Cristiana lancia
con Focsiv (la Federazione organismi
cristiani servizio internazionale volontario)
la campagna che abbiamo
intitolato “Emergenza Kurdistan –
Diamo un futuro ai bambini”, con gli
obiettivi che descriviamo qui accanto,
sapendo di poterci appellare ai nostri
lettori, certo sensibili alla sorte di tante
famiglie, anche cristiane, la cui vita
è stata minacciata e sconvolta dalla
violenza dell’Isis.
Questa non è la prima campagna
del genere. Focsiv ha collaborato
nora,
per l’emergenza in Kurdistan, con il
quotidiano Avvenire e con molti altri
enti e istituzioni (Acli, Azione cattolica,
Movimento adulti scout cattolici
italiani, Movimento cristiano lavoratori,
Iscos, Banca Etica, Acli) che hanno
deciso di intervenire
n dai primi
mesi della crisi.
Ma ora, come si diceva,
si apre un’altra fase: il bisogno e il dolore
si fanno cronici, destinati a durare
nel tempo. Questi ragazzi dovranno
vivere così per molto tempo, forse
anni. E non possono farlo in queste
condizioni.
Sappiamo che non potremo aiutare
tutti né aiutarli in tutto. Ma abbiamo
un obiettivo preciso e i volontari
Focsiv, che vivono tra i profughi e
conoscono le situazioni, sono perfetti
per aiutarci a realizzarlo. Nessun proclama,
azioni concrete.
Quando ho
salutato Amir e i suoi amici con l’ombrellino
colorato non avevo nulla con
me da regalare. Ho cercato di insegnar
loro a dire “ciao!”. Non vorrei proprio
avergli insegnato, invece, “addio”.