L’Italia che perde pezzi è un “sempreverde”. Ogni tanto spunta come un bucaneve sulle pagine dei giornali e ci ricorda che ormai l’Italia è teatro di “shopping”, come si dice in gergo economico, ovvero di scorrerie finanziarie che portano all’estero il cuore delle aziende che hanno fatto il Paese. Per fortuna, nel novanta per cento dei casi, gli stabilimenti e i posti di lavoro restano sul territorio. Ma non è raro che in caso di perdite irreparabili o di strategie della casa madre gli stabilimenti vengano delocalizzati. In realtà sono ormai decenni che l’Italia ha perso pezzi importanti della sua industria (chimica, farmaceutica, informatica, siderurgica etc.). ma lasciando stare l’economia che non c’è più l’allarme di solito si riferisce a un’eccellenza che ancora resiste: il comparto manifatturiero, in particolare la moda e il lusso. E stiamo parlando del secondo comparto d’Europa, secondo solo alla Germania.
L’allarme rosso, ad esempio, è scattato nuovamente quando il
magnate Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia, a capo di un
impero che va dagli abiti allo champagne, si è comprato Loro Piana. E
poche ore è arrivata la ferale notizia che la Pernigotti, la celebre
azienda dolciaria fondata a Novi Ligure 150 anni fa, è stata acquisita
dal gruppo Sanset di Istambul, controllato dai fratelli Ahmet e Zafer
Toksos. Il prezzo è di 84 milioni, 13 volte il margine operativo
dell’azienda, che l’anno scorso ha fatturato 75 milioni. L’ennesimo
marchio Made in Italy che passa allo straniero. E così i famosi
gianduiotti adesso parlano turco.
Per fortuna di solito lo
“shopping” non devasta le aziende ma le rilancia, lasciando nel nostro
Paese impianti e marchi (come nel caso di Arnault e Toksoz).
Ma il
problema effettivamente c’è. Siamo stanchi di creare e innovare. Gli
imprenditori del boom economico ormai hanno l’età della pensione e non
sono riusciti (anche per l’incapacità di saper mollare il timone
dell’azienda al momento opportuno) a creare una generazione che ne
raccoglie il testimone. Secondo: per resistere sulla scena
internazionale le idee non bastano: ci vogliono soprattutto
investimenti, ma per gli investimenti ci vogliono risorse finanziarie
per accendere fidi e mutui. Attualmente però credito e aziende sono
separate in casa. Le banche non aiutano e il credit crunch è uno dei
principali problemi del Paese. Non siamo stati capaci di fare sistema di
fronte a veri e propri imperi aziendali, come appunto quello di
Arnault. Quarto: per trattenere le eccellenze, difendere questo
benedetto Made in Italy dalle locuste internazionali e rilanciarlo, ci
vorrebbe una politica industriale. Qualcuno, negli ultimi vent’anni, ha
visto qualcosa di simile? Oggi la politica industriale semplicemente non
esiste.Forse è venuto il momento di ripristinarla. Qualcuno a Palazzo
Chigi vuol fare qualcosa?