Il Decaologo può
essere paragonato
alla segnaletica
di un cammino
che conduce
all’autentica
relazione con Dio
e con il prossimo.
E ha come orizzonte
la legge dell’Amore,
il primo e unico
comandamento,
che compendia
tutte le leggi.
Anche se la morale
dell’Amore
non è una morale
priva di regole.
Nell’era della globalizzazione che evidenzia il
pluralismo etico (o delle etiche), si pone l’urgenza,
come mai prima, di elaborare un’etica
universale sulla quale fondare la convivenza umana
a livello planetario. Per qualcuno tale traguardo è
un’utopia, per altri invece una possibilità concreta
in base alla convergenza su alcuni princìpi e valori
morali presenti in ogni cultura e religione.
Ulteriormente, però, si arriva a domandarsi se, oltre
alla convergenza su princìpi e valori fondamentali,
si possa trovare consenso su norme morali concrete.
Ma quali sarebbero?
Flores d’Arcais e l’allora cardinale Joseph Ratzinger,
Gad Lerner, moderatore del dibattito, ha posto
la seguente domanda: perché non prendere il Decalogo
come criterio di una normativa universale? «In
realtà», rispondeva il card. J. Ratzinger, «il Decalogo
non è proprietà privata dei cristiani e degli ebrei». E
aggiungeva: «È un’altissima espressione di ragione
morale che, come tale s’incontra largamente anche
con la sapienza delle altre grandi culture. Riferirsi
nuovamente al Decalogo potrebbe essere essenziale
proprio per il risanamento della ragione, per un
nuovo rilancio della recta ratio».
In altre parole, il Decalogo è rivelato da Dio, ma è
pienamente comprensibile alla ragione umana. Le
norme del Decalogo non sono di tipo confessionale,
proprie soltanto di una determinata confessione
religiosa, sono norme sulle quali si trova convergenza
nelle diverse culture e religioni. In un linguaggio
specifico, si dicono norme di legge naturale.
La presente riflessione, inserita in
un contesto abbastanza articolato, intende
raggiungere un duplice scopo:
rileggere i Dieci Comandamenti nella
storia degli uomini e donne di oggi; e
collegarli nell’orizzonte dell’amore/
agape, primo e unico comandamento
(amore/agape), che è al cuore
della morale cristiana e che ha, in
Gesù di Nazaret, il modello e archetipo
normativo.
Non avrai altro Dio fuori di me».
Un solo Dio e Signore. Prima di dettare
le norme del Decalogo, Dio si presenta
e si rivela il “Liberatore”: «Io ti ho
fatto uscire dal Paese d’Egitto, dalla
condizione di schiavitù».
Si comprende, così, che la prima
parola del Decalogo («Non avrai altro
Dio fuori di me») non esprime alcuna
pretesa egemonica di Dio. Al contrario,
promette la liberazione da qualsiasi
altra dipendenza. «Se si teme
Dio, non si temono più i signori della
terra» (J. Knox). Non si è più alle prese
con gli idoli che chiedono in ogni
caso sudditanza e sottomissione, «si
tratti degli dei o dei demoni (il satanismo),
del potere, del piacere, della
razza, degli antenati, dello Stato, del
denaro» (Catechismo della Chiesa
Cattolica, n. 2113). Un unico Dio e Signore,
perché allora tante religioni?
Sono tutte uguali?
Le religioni non sono uguali, come
se fosse sostenibile l’indifferentismo
o il relativismo religioso. Sono uguali
invece le persone nella ricerca della
verità religiosa che esige libertà da
ogni forma di costrizione e pressione
esterna. La libertà religiosa è un diritto
umano che ogni Stato deve riconoscere
giuridicamente. Il diritto alla libertà
religiosa, che è proprio di ogni
uomo e donna, esige il rispetto delle
diverse religioni, il dialogo e la collaborazione
per le grandi cause della
pace, giustizia e armonia tra le genti.
L’adesione all’unico Dio e Signore
libera da false credenze e, tra queste,
la superstizione nelle diverse manifestazioni:
«Ricorso a Satana o ai demoni,
evocazione dei morti o a pratiche
che a torto si ritiene che svelino l’avvenire.
La consultazione degli oroscopi,
l’astrologia, la chiromanzia, l’interpretazione
dei presagi e delle sorti, i
fenomeni di veggenza, il ricorso ai medium
occultano una volontà di dominio
sul tempo, sulla storia e infine sugli
uomini e insieme un desiderio di
rendersi propizie le potenze nascoste
» (Catechismo della Chiesa Cattolica,
2116). Sono credulità che, se ci si
crede davvero, oltre al danno economico,
creano condizioni psicologiche
di dipendenza dalle quali difficilmente
si esce, e impediscono un’autentica
realizzazione umana.
«Non nominare il nome di Dio invano
». Dire Dio. «Non pronuncerai invano
il nome del Signore, tuo Dio» (Es
20,7; Dt 5,11). Il nome dice diretto riferimento
a Dio. Si pronuncia invano
il nome di Dio quando non influisce
per niente nella vita e nella condotta.
Pronuncia invano il nome di Dio
chi tira Dio dalla sua parte, senza domandarsi
se lui è dalla parte di Dio;
chi si serve di Dio per avallare progetti
umani senza chiedersi se corrispondono
o no al disegno di Dio.
È invano e blasfemo nominare Dio
per mascherare pratiche criminali, ridurre
persone e popoli in schiavitù,
torturare e mettere a morte. È invano
e blasfemo nominare Dio per attribuirgli
disgrazie e sofferenze umane
e, così, renderlo complice della distruzione
e della morte. Anche se i mali,
personali e sociali, sono conseguenza
di scelte umane sconsiderate, sbagliate
o addirittura peccaminose, nominare
Dio come vendicatore e castigatore riflette un modo falso e contraddittorio
di dire Dio. C’è un rapporto stretto
tra il nome di Dio e quello dell’essere
umano, creato a immagine e somiglianza
di Dio. Chi onora/disonora il
nome dell’uomo e della donna, onora/
disonora quello di Dio. Nessuno
può pretendere rispetto per il proprio
nome, cioè per la propria persona,
se non rispetta quello di Dio.
«Ricordati di santificare le feste».
Il giorno del Signore. Santificare le feste
ha un significato religioso e, insieme,
culturale e sociale. «Santificare le feste
» è molto più che riposo dal lavoro,
è apertura al Trascendente senza il
quale l’immanente diventa oscuro.
Il giorno del Signore è liberazione
dalla cultura utilitarista che valorizza
unicamente il rendimento e il profitto,
incapace di apprezzare il tempo
dedicato al gratuito e a quanto apparentemente
non rende nulla in termini
di profitto. Il giorno del Signore ricorda
che la vita è nelle mani di Dio,
il solo che assicura quello che invano
si cerca nelle cose da fare e da progettare.
La tentazione di occupare la domenica,
con il lavoro produttivo, è
frutto della cultura consumista che
non avverte più il bisogno di una liberazione
dalla preoccupazione di avere
sempre più cose. L’etica del terzo
Comandamento (santificare le feste)
ridona il senso del tempo della vita
tra la festa e il lavoro.
«Onora tuo padre e tua madre».
Nella successione dei Comandamenti,
dopo Dio, vengono il padre e la madre.
Non è forse troppo? «A loro dobbiamo
la vita»: è questa la ragione che
motiva il rispetto ai genitori, belli o
brutti, ricchi o poveri, famosi o no
che siano. Soltanto loro hanno il titolo
privilegiato di paternità/maternità,
che è segno efficace, a volte modesto
e appena percettibile, della paternità/
maternità di Dio. Si deve ai genitori
l’ingresso nella comunità, nella
cultura e nella società umana. Può anche
essere una partenza povera e non
soltanto di cose materiali. In ogni caso,
costituisce un radicamento originario
che non può essere cancellato
dalla storia della persona. Attraverso i
genitori, ogni nuova generazione si
collega alla tradizione delle precedenti
generazioni. Il passato non è certo
da imitare e ripetere passivamente,
può e deve invece illuminare il cammino
presente verso il futuro.
E' urgente riscoprire l’etica del quarto
Comandamento. Le società dell’Occidente
sono chiamate “società senza
padre”, cioè mancanti di modelli di vita
e di maestri autorevoli e significativi.
Ricomporre, pertanto, la verità e
l’autenticità delle relazioni familiari
diventa decisivo per comprendere e vivere
in pienezza le più ampie relazioni
sociali. L’esemplarità della famiglia
può condizionare la vita sociale, professionale
e politica. Il modello familiare
«si estende ai doveri degli alunni
nei confronti degli insegnanti, dei dipendenti
nei confronti dei datori di lavoro,
dei subordinati nei confronti
dei loro superiori, dei cittadini verso
la loro patria, verso i pubblici amministratori
e i governanti» (Catechismo
della Chiesa Cattolica, n. 2199).
«Non uccidere». La vita da valorizzare.
Il diritto alla vita si fonda sulla vita
stessa e, quindi, su Dio, creatore della
vita. Anche il non credente sperimenta
che la vita non è costruzione e produzione
umana: è una realtà ricevuta,
donata, rinvia oltre, rinvia al mistero,
all’Assoluto. La vita per sé stessa è religiosa
(sacra). La vita umana è indisponibile
da chiunque, privato o potere
pubblico che sia. Nessuno è padrone
della vita propria o di altri: è sotto la
protezione di Dio: «Non uccidere».
La dignità della persona esige incondizionato
rispetto dall’inizio al termine
naturale dell’esistenza. La vita umana
si scontra oggi con frequenti e numerosi
casi limite, dove la categoricità
del divieto sembra sospesa: si pensi alle
gravi situazioni evocate dal suicidio,
dall’eutanasia, dall’aborto, dall’embrione
umano, dalle sperimentazioni
scientifiche, dalla pena di morte, dalla
guerra. In questi e altri casi sorgono
domande sul da farsi: il divieto non è
forse assoluto e incondizionato?
Il Comandamento «Non uccidere»
difende la vita in modo globale e non
settoriale: forte nella contrarietà
all’aborto e all’eutanasia, alla guerra e
alla pena di morte, a un’economia e organizzazione
del lavoro ingiusta. Si verifica
oggi, più che nel passato, una crescita
delle coscienze nell’esigere la cancellazione
della pena di morte negli
Stati che ancora la prevedono e la praticano;
e nel sostenere la contrarietà alla
guerra, quale strumento di soluzione
delle controversie internazionali.
«Non commettere adulterio» (in
versione catechistica: «Non commettere
atti impuri»). Umanizzare la sessualità.
Il termine “sessualità” indica che
la persona umana non esiste al neutro,
ma al maschile/femminile. Indica,
pertanto, tutto ciò che caratterizza
l’uomo a livello biologico, psicologico
e spirituale e lo distingue dalla donna;
tutto ciò che caratterizza la donna
e la distingue dall’uomo.
Il termine “sessualità” indica la differenza
di genere maschile/femminile
(che non è inferiorità) ma anche la reciprocità
uomo-donna. L’unione di
coppia è una forma originale della relazionalità
maschile/femminile, ma non
è l’unica né l’esclusiva. Dio non ha creato
il genere umano come un club di soli
uomini o di sole donne. La ricchezza
dell’umano non è rappresentata né dal
solo maschile o dal solo femminile, ma
appunto dalla reciprocità maschile/
femminile. In qualunque ambito
dove si verifica il dominio maschile è
l’umano che risulta impoverito.
Nella prospettiva della differenziazione
e reciprocità maschile/femminile,
si pone inevitabilmente la problematica
di persone con diverso
orientamento sessuale, per esempio,
omosessuale. «Costoro non scelgono
la loro condizione omosessuale; essa
costituisce per la maggior parte di loro
una prova. Perciò devono essere accolti
con rispetto, compassione e delicatezza.
A loro riguardo si eviterà
ogni marchio di ingiusta discriminazione
» (Catechismo della Chiesa Cattolica,
2358), in famiglia, sul lavoro e
nella società. Particolari problemi si
pongono oggi, nelle nostre società, a
riguardo delle convivenze omosessuali.
Una soluzione, convergente tra diverse
proposte legislative, può essere
trovata nel riconoscere i diritti individuali
dei componenti la coppia, per
esempio, il diritto all’assistenza per
malattia e ricovero, la reversibilità della
pensione, la successione nel contratto
di locazione, ecc.
A riguardo dell’eros, quale componente
costitutiva dell’umano, l’etica
del sesto Comandamento non conduce
alla repressione o, all’opposto, alla
liberalizzazione; conduce, invece,
all’integrazione dentro la persona e il
suo finalismo. In questa prospettiva,
si comprende il ruolo della castità, virtù
regolatrice (integratrice) dell’eros
(passione, desiderio, istinto) nell’orizzonte
della persona e della vocazione
che, liberamente e consapevolmente,
ha scelto. Non è difficile constatare
che la cultura contemporanea è lontana
dalle proposte del sesto Comandamento.
I mass media orientano su un
tipo di esistenza centrato sul piacere, sul consumo e sull’efficienza, che assomiglia
sempre più a uno spettacolo
fatto di istinti. Così si è diffusa la mentalità
del «sesso libero» e, nel rischio
dell’Aids, del «sesso sicuro».
Di fronte alla banalizzazione del sesso
e della sessualità, l’etica del sesto
Comandamento riporta l’intero discorso
della sessualità (eros, passione,
affettività) ai valori che fondano la relazionalità
maschile/femminile in
ogni ambito dell’esistenza.
«Non rubare». I beni sono da condividere.
Troppe volte il settimo Comandamento,
nel corso della storia, è usato
per la conservazione dello status quo
ingiusto, che legalizza il furto dall’alto
(gli arrivati) mentre minaccia in tutti
i modi il furto dal basso (gli esclusi).
In altre parole, il diritto alla proprietà
privata non è assoluto e incondizionato.
Il principio della destinazione universale
dei beni è principio primario,
rispetto alla proprietà privata, del diritto
alla medesima e del suo esercizio.
È il principio che mette in questione
l’attuale assetto mondiale diviso in
individui e popoli che hanno troppo
e individui e popoli che hanno troppo
poco, gli uni e gli altri impediti,
per ragioni opposte, di essere di più.
L’etica del settimo Comandamento
non è funzionale e strumentale al
mantenimento dell’ingiusto status
quo, ma per dare concretezza a un ordine
di giustizia per tutti. «Le nazioni
ricche hanno una grave responsabilità
morale nei confronti di quelle che
da sé stesse non possono assicurarsi i
mezzi del proprio sviluppo o ne sono
state impedite in conseguenza di tragiche
vicende storiche. Si tratta di un
dovere di solidarietà e di carità; e anche
di un dovere di giustizia, se il benessere
delle nazioni ricche proviene
da risorse che non sono state equamente
pagate» (Catechismo della
Chiesa Cattolica, n. 2439). Detto più
chiaramente, il Comandamento
“Non rubare” raggiunge le persone e i
popoli che sono diventai ricchi per appropriazione
indebita, cioè per furto.
«Non dire falsa testimonianza». La verità da dire al prossimo in tribunale e in
ogni luogo. Ogni persona ha diritto, in
tribunale, a una sentenza giudiziaria
giusta ed equa, e questo dipende molto
dal testimone: «Non pronunciare
falsa testimonianza contro il tuo prossimo
» (Es 20,16). Il divieto difende la
dignità e l’onore dell’individuo così
facilmente violati e così difficilmente
riscattabili davanti all’opinione pubblica.
La falsa testimonianza non accade
soltanto nelle aule dei tribunali.
Si pensi all’invadente ruolo esercitato
dai mezzi d’informazione che, in
nome della libertà d’informazione,
mettono in piazza ogni cosa. Con
estrema leggerezza, e a volte con cattiveria,
si pubblicizzano fatti e giudizi
che permangono nel tempo, talora
per una vita intera, rovinandola, anche
se poi sono smentiti. Ogni giorno
con la stampa, la radio e la televisione,
la scena pubblica della vita delle
persone diviene un tribunale.
Nel rispetto della verità, è necessario
farsi avvocati difensori del prossimo
nelle diverse occasioni della vita
quotidiana. È questa la prima lezione
dell’ottavo Comandamento.
È noto il comportamento degli scribi
e dei farisei davanti all’adultera.
Non era in questione la verità (l’adulterio),
ma la mancanza di pietà e di
misericordia. Gesù di Nazaret si fa avvocato
difensore della donna. Verità
e carità si legano strettamente: nessuna
verità senza amore, nessun amore
autentico può esserci senza verità.
Dire la verità, nella prospettiva del
Comandamento e nella luce di Cristo,
significa “dire la verità” nella rispettosa
considerazione del prossimo. «È un falso
amore quello che deride la verità,
ed è un falso culto della verità quello
che distrugge l’amore. L’elemento vitale
della verità è l’amore» (B. Pascal).
«Non desiderare la donna d’altri».
Desiderio umano da orientare. Il nono comandamento
introduce un cambiamento
e riporta l’intero discorso morale
al cuore dell’uomo, vale a dire al centro
della persona e dei suoi progetti.
Non basta l’operazione “Mani Pulite”,
occorre l’operazione “Cuore Pulito”.
Non si è persona morale se non lo
si è dal profondo
del cuore. L’operazione
“Cuore
Pulito” apre su
traguardi molteplici
e attraenti.
«Fin d’ora la purezza
del cuore ci
permette di vedere
secondo Dio,
di accogliere l’altro
come un prossimo;
ci consente
di percepire il
corpo umano, il
nostro e quello
del prossimo, come
un tempio
dello Spirito Santo, una manifestazione
della bellezza divina» (Catechismo
della Chiesa Cattolica, n. 2519).
Il valore dell’operazione “Cuore pulito”
appare vistosamente dal suo rovescio,
dall’esibizionista, dal trasgressivo,
da colui che, in nome della libertà, si
rende schiavo della moda e di quanto
esige il pubblico. L’etica del nono Comandamento
non ha nulla di repressivo,
di mortificante, di colpevolizzante;
ha tutto di liberante e di promovente la
persona. Promette quanto ognuno desidera
nell’aspirazione a vivere rapporti
autentici con le persone e con Dio.
«Non desiderare la roba d’altri». Il
Comandamento in questione non induce
l’individuo a liberarsi dal desiderio
dei beni, forse impossibile, ma a liberare
il desiderio dall’ansia dell’avere
e del possedere (spesso sempre di
più). Il senso del limite è già abbondantemente
superato quando il fine
della vita è posto nel voler accumulare
ricchezze e potere, e quando la “programmazione”
della persona e della famiglia
segue la logica dell’avere sempre
di più. L’individuo è un essere dal
desiderio infinito e, anche nelle cose
materiali, dimostra di essere infinito
nelle aspirazioni.
L’etica che è racchiusa
all’interno
del Decimo Comandamento
insegna
che questa strada
conduce alla schiavitù
e al fallimento
del senso della vita.
In controtendenza,
il Comandamento
propone di restituire
il primato a quelli
che sono chiamati
i desideri dello spirito,
così da integrare,
nella giusta misura,
i beni terreni.
Inoltre, la cultura dell’avere e del
possedere sempre di più non è prerogativa
esclusiva del singolo, ma anche
del gruppo umano e della cultura dominante.
Le società dell’Occidente
hanno bisogno di una “conversione”
alla qualità della vita, che comprende
ma non è riducibile al benessere materiale.
Il Decimo Comandamento conduce
a realizzare un’armonia tra una
crescita qualitativa e quantitativa, tanto
a livello personale quanto a livello
sociale. Si tratta, in definitiva, di “riorientare”
il progresso economico alla
sua destinazione umana e sociale.
Gesù di Nazaret, come risulta dal
Vangelo quadriforme, conferma lo
scenario dei “Dieci Comandamenti”,
quale segnaletica di un cammino che
conduce alla autentica relazione con
Dio (rilevabile nei primi tre Comandamenti)
e con il prossimo (negli altri
sette). Tuttavia, li inserisce
nell’orizzonte più vasto del “Discorso
della Montagna”, ovvero la Magna
Charta dell’agire morale. Il Decalogo
trova, così, unità e orizzonte nella Legge
dell’amore/agape, che è il primo e
unico Comandamento; in sostanza, è
la Legge che compendia tutte le leggi,
anche quelle del Decalogo.
Non si tratta, pertanto, di contrapporre
la morale dei Comandamenti
alla morale dell’amore/agape. Si può
invece riconoscere che la “morale
dell’amore” non è una morale priva
di norme. L’amore/agape (amore
oblativo) non è un Comandamento,
sia pure il più importante rispetto agli
altri dieci; è il Comandamento, di cui
gli altri non sono che determinazione,
concretizzazione, a volte minimale,
di quello. Anzi l’amore/agape carità
non è nemmeno il Comandamento,
ma il senso della vita e dell’agire
morale. La domanda morale si qualifica
da sempre, oggi soprattutto, come
domanda di senso: del senso ultimo
della vita umana e dei sensi intermedi,
che a quello si collegano, e che riguardano
le realtà del matrimonio e
famiglia, dell’economia e politica, lavoro,
convivenza umana, del soffrire
e morire umano. Il Comandamento
(uno), che comprende e va oltre i Comandamenti
(dieci), è la risposta alla
domanda del senso dell’agire umano
sempre in ricerca di quanto può dare
contenuto autentico alla libertà-responsabilità
e consente di raggiungere,
già qui e ora, la felicità e la pace
personale, familiare e sociale.