Un'immagine storica di martiri cristiani albanesi deportati.
Papa Francesco,
nell’annunciare che il 21 settembre sarà a Tirana, ha detto: «Con
questo breve viaggio desidero confermare nella fede la Chiesa in
Albania e testimoniare il mio incoraggiamento a un Paese che ha
sofferto a lungo in conseguenza delle ideologie del passato».
A Scutari, nord
dell’Albania e centro cattolico di un Paese a maggioranza
musulmana, c’è un memoriale della persecuzione contro i cattolici,
insieme a ortodossi e islamici, durante il regime comunista di Enver
Hoxha, arrivato – unico caso in Europa – a proclamare l’ateismo
di Stato nel 1967. È la palazzina della Sigurimi, la spietata
polizia segreta, che dopo la caduta del regime tornò ai vecchi
proprietari, i Francescani. Dal 2005, è stato affidato alle Sorelle
Povere di Santa Chiara (Clarisse), che hanno fondato un monastero e
ora sono sia albanesi che italiane.
Racconta suor Sonia,
arrivata dal monastero fondante di Otranto: «All’inizio, era un
luogo abbandonato, coperto da due metri di macerie, senza porte e con
i muri abbattuti. Abbiamo provato a far rifiorire il deserto per
custodire uno dei pochi luoghi di testimonianza e di martirio
visitabili in Albania. Cerchiamo di essere un monastero nella città
degli uomini, coniugando la vita contemplativa e di preghiera con
l’incontro continuo».
Una croce all'interno dell'ex carcere di Scutari.
Da poco, finanziato dallo Stato, è stato
eseguito il restauro dell’ex carcere. Ci sono ancora gli strumenti
di tortura e, sui muri delle celle, i segni incisi dai prigionieri
delle differenti fedi: croci accanto a sure del Corano. «Questo
pavimento», spiega suor Sonia, «è bagnato dal sangue dei martiri;
lì era la cella di Maria Tuci, una dei 40 martiri albanesi per cui è
stato avviato il processo di beatificazione. Non c’era né luce, né
acqua; quando pioveva, l’acqua raggiungeva i materassi».
Aspirante
delle Stimmatine arrestata nel 1949, quando si oppose allo stupro, un
carnefice le disse: «Ti ridurrò in uno stato tale che neppure i
tuoi familiari potranno riconoscerti». Continua la suora: «Un uomo,
che conosceva la ragazza e fu incarcerato nello stesso periodo, ci ha
raccontato di averla incrociata senza riconoscerla. Nel vedere questa
diciottenne – talmente era sfigurata dalle torture – pensò: “Si
accaniscono anche contro le vecchie”».
La storia di Maria,
morta l’anno dopo, è una di quelle ricordate nella Via Crucis che
si svolge nel cortile dell’ex carcere durante la Quaresima. La
tredicesima stazione è dedicata al francescano Serafin Koda: «Lo
torturarono immergendolo in un bidone. Gli affondarono le unghie
nella gola fino a spezzargli la trachea».
Gjovalin Zezaj, ex deportato e carcerato, oggi 86 anni.
Anche Gjovalin Zezaj,
ottantaseienne che oggi vive con la moglie Cesarina a pochi metri
dalle Clarisse, conosce bene quel luogo: è stato arrestato due volte
– «la seconda nel 1959, proprio nel giorno della visita di Kruscev
in Albania» – e ha trascorso 11 anni tra il carcere e i campi di
prigionia. Con lui bisogna parlare a voce molto alta: «Mi mettevano
i fili nelle orecchie e la corrente mi scuoteva tutto il corpo. Mi
hanno preso l’udito, non il cuore». Quando non sente, ci pensa
Cesarina – anche lei ha avuto dei parenti licenziati e imprigionati
perché cristiani – a ripetere la domanda.
«La prima volta fui
arrestato a 17 anni perché facevo parte dell’Unione Albanese, un
gruppo anticomunista guidato dal seminarista Mark Çuni, fucilato nel
1946». Ricorda «notti che non passavano mai» e il conforto della
fede: «Ero solo in camera, pregavo tutto il giorno, specialmente
perché non succedesse nulla ai miei parenti. Avevo fatto un Rosario
di carta e lo recitavo cinque volte al giorno». Gjovalin mi mostra
un dizionario di francese e una grammatica italiana scritti durante
la carcerazione e mi spiega il trucco del tappo: «Avevo trovato un
rasoio con il quale tagliavo il tappo della bottiglia del latte che
mi faceva avere la mia famiglia; nella fessura infilavo la
corrispondenza, scritta con caratteri piccolissimi sulla carta delle
sigarette». Per la Pasqua, invece, padre Leon Kabashi riuscì a
farsi mandare dalla sorella un corporale con 50 ostie, nascosto nelle
babbucce.
Tra i corridoi delle
celle, Gjovalin vide molti cristiani, come il suo professore e
rettore del seminario, il padre gesuita Danjel Dajani, «che passava
con la sottana coperta di sangue», o la diciottenne Ana Daja,
condannata a 4 anni perché si era rifiutata di togliere dal petto il
distintivo dell’Azione cattolica. «Tra i carcerieri», racconta,
«conoscemmo Fadil, un soldato buono, che ci lasciava conversare con
i compagni o riposare quando ci condannavano a stare 48 ore in piedi.
Un giorno mi avvertì che, andando in bagno, avrei potuto incontrare
un prete italiano. Nel gabinetto fetido, trovai il padre gesuita
Giovanni Fausti, molto noto all’epoca». Gjovalin si commuove nel
ricordare che gli offrì due arance, ma le rifiutò dicendo: «Tienile
per te che sei giovane». Aggiungendo: «Anche Gesù ha sofferto per
noi, dobbiamo seguire la sua strada».
Nel frattempo, tutti i
luoghi di culto venivano chiusi e trasformati in cinema o palestre,
il santuario della Madonna del Buon Consiglio venne raso al suolo e
il greto del fiume Kir era diventato un poligono di tiro e un luogo
di fosse comuni. «Eppure», continua Gjovalin, «anche sotto il
piombo della dittatura, questi religiosi non abiuravano e perdonavano
i loro assassini». Padre Dajani, prima di essere fucilato, disse:
«Perdono quelli che mi hanno fatto del male». Fausti, ucciso
insieme a lui: «Sono lieto che la morte mi arrivi mentre sto facendo
il mio dovere».
Gjovalin fu
inizialmente condannato a 30 anni, poi ridotti, e fu deportato nel
campo di concentramento di Bedeni, nel sud, circondato di filo
spinato e da guardie armate: «In 2 mila dovevamo prosciugare una
palude. Il campo era senz’acqua, andava un carro a prenderla con
due bidoni di benzina: la scarsa razione giornaliera era calda e
sapeva di petrolio». In questi lager, agli inizi degli anni ’80,
c’erano 40 mila persone, l’1,5% della popolazione.
Monsignor Frano Ilia,
ordinato vescovo di Scutari da Giovanni Paolo II durante la visita in
Albania del 1993, ha detto del periodo nel campo: «Mi ricordo dei
momenti in cui celebravo la Messa, a memoria e in segreto. Per farlo
mi dovevo procurare del pane e del vino, pigiando dell’uva. Ogni
minuto è stato difficile, ma Dio ci ha donato la grazia di restare
fedeli, nonostante le sevizie». Del resto, su 6 vescovi e 156 preti
di prima della dittatura, ben 65 sono morti per esecuzione o tortura
e 64 sono morti dopo essere stati in prigione o nei campi. Alla
caduta del regime, sopravvivevano una trentina di preti che avevano
tutti conosciuto la detenzione.