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giovedì 12 settembre 2024
 
Un incontro speciale
 

Quando Alda Merini ci disse: "Se si guarda l’universo, come si fa a non pensare che c’è un Dio creatore?"

14/03/2024  Famiglia cristiana nel 2009, pochi mesi prima che morisse, era andata nella casa di Alda Merini sui Navigli per parlare con la poetessa dell'amico David Maria Turoldo a cui aveva dedicato la raccolta "Padre mio". L'occasione per raccontarci aneddoti della sua vita e riflessioni preziose sulla malattia, la poesia, il dolore e la gioia. "La poesia è un dono di Dio, ma te la fa pagare cara"

«Aveva una voce tremenda», dice per prima cosa Alda Merini di padre David Maria Turoldo, il sacerdote-poeta dei Servi di Maria. È mattina nelle povere stanze sul Naviglio che la Merini abita e in cui si accumulano tracce e segni di una vita dolorante e piena di poesia. Alda ha il viso illuminato da un sorriso infantile, buono e allo stesso tempo ironico. Ricorda a lampi, a frammenti l’incontro con il sacerdote conosciuto alla Corsia dei Servi dopo la fine della guerra. «Era un uomo severo, non un bacchettone. Si imponeva, gridava. È uno di quelli che ha ricostruito Milano dopo la rovina». A Turoldo la poetessa dei Navigli ha dedicato una serie di testi ora raccolti nel volume Padre mio, che Frassinelli (2009) manda in questi giorni in libreria. Sono perle, illuminazioni della memoria dedicate a un uomo conosciuto quando Alda era giovanissima, forse ancora prima dei 18 anni: prima del suo esordio poetico ufficiale e molto prima del ricovero in manicomio che avrebbe segnato la sua esistenza.

La sofferenza ci mette alla prova «David mi guardava con severità. Mi diceva: piccola peccatrice, forse solo perché ero esuberante», dice la Merini, così come ha scritto anche nei ricordi in prosa Uomini miei (Frassinelli, 2005). Ma non è sempre facile distinguere, nelle sue parole, tra storia e reinvenzione letteraria. La figura della donna nella storia sacra, questo interessa alla Merini E cita con precisione, attingendo a chissà quali fonti della memoria, una sua poesia di Nozze romane (1955) sulla Maddalena che si presenta davanti a Cristo. «David», racconta ancora, «essendo nato povero gustava i beni semplici del creato. Ricordo le sue prediche, dure, profetiche». E poi: «È stato un maestro, un testimone dei tempi. Non era un uomo altezzoso, ma aveva un grande rispetto per il proprio ruolo di sacerdote. È stato un vero cristiano, con tutti i patimenti dell’uomo». Qui si innesta il ricordo della malattia di padre Turoldo, che lo portò alla morte nel 1992. Secondo la poetessa, «David entrò in una vera crisi, anche spirituale. La sofferenza ci prova, ci mette in questione », e a questo proposito la Merini ricorda un altro dei suoi fari religiosi, santa Teresa di Gesù Bambino. «Lodato sia il mio Signore» «L’uomo malato si dispera. Il castigo è la mancanza di fede».

E Alda Merini ha fede? Lei si schermisce: «Mi piace cantare la fede, dire: lodato sia il mio Signore». Cantare, lodare, fare versi. Di padre Turoldo la Merini ha ancora un ricordo luminoso, anch’esso finito nelle pagine di Uomini miei e ora in una poesia. David che battezza la sua prima figlia, Emanuela, e le dice che quella è la sua più bella poesia. «Ecco, io sono stata soprattutto una mamma, anche se spesso un po’ infelice». Nella raccolta Padre mio ci sono anche alcuni brani dedicati a papa Giovanni Paolo II. La Merini ricorda di avere molto amato il suo testo teatrale La bottega dell’orefice. E a proposito di quel testo del Wojtyla autore, dove si parla degli anelli degli sposi, confida la poetessa: «Io credo molto nel matrimonio. L’amante suppone un certo tipo di leggerezza, il matrimonio richiede un impegno».

E del Papa polacco: «Giovanni Paolo II mi ha sempre ispirato tenerezza. Voleva bene alle donne». Anch’egli poi, nota la poetessa, si è trasformato in un’icona di sofferenza. «Nella Chiesa occorre carisma», sussurra, mentre entra nella stanza la sua infermiera, a cui è legata da un profondo affetto. «Il malato ha bisogno di essere amato. Se si sente amato, si lascia fare ogni cosa». Ma Alda, da popolana dei Navigli, di una Milano che in gran parte non esiste più, crede anche nel potere del sorriso. Tra parole di spiritualità e di poesia mescola aneddoti scherzosi in dialetto, battute, vere e proprie barzellette sacre. E aggiunge: «La Chiesa secondo me manca un po’ di ironia. Non sa ridere. La vorrei un poco più allegra».

E qual è invece, chiedo, il carisma del poeta? Ci pensa su un momento, poi risponde sicura: «È la spensieratezza. Il poeta non si cura, non si affanna. Vive come gli viene, è anche un po’ fatalista». Si guarda in giro, nella stanza in cui si accalcano oggetti e suppellettili. «Lei vede quanto poco spazio. Ma se si guarda l’universo, come si fa a non pensare che c’è un Dio creatore? Il poeta dovrebbe essere anche puro, ma non è facile, perché c’è l’amore per il corpo». Il tempo dell’incontro è quasi finito. Sente questo Dio creatore come misericordioso, paterno, le chiedo. «Sì e no. Io credo», risponde, «nella responsabilità di ognuno. Il male, la cattiveria, l’invidia sono mali da cui guardarsi. Il dono della poesia, della bellezza non va toccato ». La poesia è un dono? «Lo è stato per me quando ho scoperto che il dolore poteva diventare gioia, a patto di non chiedere di più. Bisogna essere umili, modesti. Sì, la poesia, la bellezza sono doni di Dio. Ma Dio te li fa pagare».

 

 

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