«C’era il braccio scoperto e ho riconosciuto mio padre dal suo orologio Zenith, l’unico regalo importante che si era fatto in tanti anni di lavoro. Se lo toglieva la sera prima di andare a dormire, lo caricava e lo rimetteva al polso prima dell’alba, alle quattro, quattro e mezza, quando si alzava per andare al lavoro». La strage di via Fani, con l’assassinio dei cinque uomini di scorta, entra nel modo più brutale nella vita di Giovanni Ricci. Aveva 12 anni, il turno pomeridiano a scuola, come suo fratello Paolo, più piccolo di due anni. Ricorda le telefonate, le mezze parole di sua madre, il vociare sempre più intenso, la Tv accesa e quel lenzuolo bianco che, in via Fani, copriva il corpo alla guida della Fiat 130 blu. Nell’edizione straordinaria dei giornali di quel giorno, che qualcuno, nel pomeriggio, lascia superficialmente in casa loro, c’è anche la foto dei corpi senza lenzuolo, «il primo piano di mio padre crivellato da sette colpi di arma da fuoco. Per anni la mia vita è stata bloccata in quel fotogramma». Con i due carabinieri Domenico Ricci, appuntato, 43 anni, e Oreste Leonardi, maresciallo, 51, quella mattina muoiono anche i tre poliziotti dell’altra auto di scorta, l’Alfetta bianca che seguiva la macchina di Aldo Moro: gli agenti Giulio Rivera, 23 anni, e Raffaele Iozzino, 25, e il vicebrigadiere Francesco Zizzi, 30 anni non ancora compiuti.
Oggi, quarant’anni dopo, attorno al tavolo tondo di casa Giovanni apre l’album dei ricordi, «il mio libro dei sogni, quello che racchiude tutta la vita di mio padre a partire dalla sua infanzia in campagna». Indica le foto del papà Domenico riconoscendolo tra la folla attorno ad Aldo Moro, insieme con Oreste Leonardi, rispettivamente autista e caposcorta del presidente democristiano.
FOTOGRAMMA ANGOSCIANTE
Erano la sua ombra. E sono morti entrambi quella mattina del 16 marzo del 1978. «Quel fotogramma che aveva ingessato la mia vita, che l’aveva resa piena di rancore, odio e spirito di vendetta, si è sciolto dopo anni, nel 2012 guardando in faccia Valerio Morucci, l’assassino di mio padre, Franco Bonisoli, un altro degli autori della strage, e Adriana Faranda, la cosiddetta “postina” delle Br durante il sequestro Moro. Mi svegliavo anche di notte, sudato, con gli incubi, leggevo e rileggevo le carte dei processi, me le portavo anche a scuola da ragazzino. E avevo in mente solo una cosa: che quelle erano bestie e andavano “annientate” come loro avevano “annientato” la scorta di Moro. Oggi quel peso è diventato più leggero. Davanti a me gli assassini di mio padre piangevano e mi sono reso conto che io, negli anni, stavo facendo quello che i terroristi avevano fatto alle loro vittime: disumanizzarle. Rendermi conto, invece, che avevo davanti delle persone ha avuto su di me un effetto incredibile. Le cicatrici ci sono, ma non sanguinano più. Ho cominciato a ricordare, a rivedere mio padre venire a casa con i regali il sei gennaio, l’unico giorno di festa nell’anno che passava con noi, scherzare con mia madre».
«GIOCAVO CON LA SUA PALETTA».
Giovanni ricorda il senso delle istituzioni del padre, l’attaccamento al suo lavoro, «la gelosia di mia madre per la cura che aveva per l’auto di servizio, il giorno in cui ho ficcanasato trovando la paletta dei carabinieri con la quale mi sono messo a giocare, le poche domeniche a casa attaccato alla radiolina per sentire le partite... Mi sono fatto raccontare il giorno in cui Moro, già proiettato verso la presidenza della Repubblica e preoccupato per l’inasprirsi della lotta armata, aveva detto ai suoi uomini di scorta che potevano scegliere di farsi destinare ad altro incarico. E quell’attaccamento che aveva invece spinto tutti ad assicurare la loro presenza accanto a lui. Insomma, quel fotogramma del 16 marzo si è rimesso in moto inserito in una pellicola più ampia in cui mio padre era molto di più del solo giorno della sua morte».
UN PAESE BLOCCATO
Giovanni parla dei suoi studi di sociologia «intrapresi perché volevo capire cosa aveva spinto delle persone a ucciderne altre» e quelli di criminologia, «per studiare bene la dinamica di via Fani», e poi del suo lavoro per tenere sveglia «una memoria che guardi al futuro» perché «mi pare che il Paese sia bloccato ancora in una retorica fascismo-antifascismo. Non ha avuto la capacità di affrontare e chiudere delle fasi storiche per guardare avanti. Mi piacerebbe vedere anche in Italia quello che è accaduto in Sudafrica con la Commissione verità e riconciliazione».
Intanto il futuro si chiama Domenico, suo figlio, 22 anni, che lo guarda, attento, dall’altra parte del tavolo. «Sto studiando per diventare carabiniere come il nonno, di cui porto il nome», spiega. «Per me è un orgoglio e una responsabilità, come ho spiegato anche nella mia tesina di maturità sugli anni di piombo. Come ho scritto, forse gli italiani non sono riusciti ad andare oltre quelle centinaia di morti e migliaia di feriti che mette il nostro Paese ai primi posti per vittime del terrorismo. I miei coetanei non sanno quasi nulla di quegli anni, che invece dovremmo tutti ricordare. Senza memoria non saremo al riparo dal fatto che cose del genere possano di nuovo accadere».