Poteva chiamarsi solo El Alto una città costruita a 4.100 metri di quota. Fino a qualche decennio fa quassù non c’era quasi nulla, poi la gente delle campagne ha cominciato a comprare terreni. Così oggi El Alto è diventata una città con oltre un milione di abitanti, fatta in gran parte di case non intonacate, con i mattoni a vista. Una città color mattone, costruita sulle spalle di La Paz, capitale della Bolivia, che si estende cinquecento metri più in basso e si raggiunge in funivia. Ci sono botteghe, mercati, chiese, asili, ospedali, l’aeroporto internazionale, lunghi tratti di strada sterrata e centinaia di cani randagi.
La casa dove vive Alessandro Manciana è fra le poche a non avere il colore del mattone. È tutta bianca. Ha due piani, un piccolo giardino, un cancello verde che si apre sulla strada dove bivaccano i cani. Alessandro ci vive con la moglie Alina, boliviana, e il piccolo Luigi, nato nel 2013. Alessandro Manciana, vincitore del Premio del Volontariato internazionale della Focsiv (Federazione degli organismi cristiani di servizio internazionale volontario), meriterebbe un premio solo per la scelta di vivere in questo inferno urbano. Dove l’altitudine taglia il fiato e rallenta i movimenti, dove le strade sono dissestate e spesso interrotte da improvvisate feste danzanti non autorizzate, dove 200 mila persone non hanno accesso all’acqua potabile, dove metà della popolazione vive in povertà moderata.
Nonostante il contesto difficile, Alessandro non perde mai l’entusiasmo, il sorriso, la gentilezza nei confronti degli ospiti venuti dall’Italia per raccontare il suo lavoro e la sua storia. Mette a bollire l’acqua del mate, risponde al telefono per concordare la visita a un paziente, si prende cura del piccolo Luigi, lava i piatti della cena, perché Alina è stata tutto il giorno fuori, al corso di specializzazione, e ha il diritto di riposarsi. Fin da bambino, Alessandro sognava di fare qualcosa di utile per gli altri. Racconta: «Una suora, alle elementari, in una scuola pubblica di Brescia, mi fece nascere il desiderio di essere aperto agli altri».
Tutte le sue scelte successive partono da quella intuizione: l’oratorio, l’iscrizione alla facoltà di Medicina, la specializzazione in Chirurgia pediatrica, i contatti con i volontari dell’Operazione Mato Grosso. Nel 2004 il primo viaggio in Sudamerica, con meta il Perù. «In quel Paese latinoamericano passai due mesi, durante i quali mi sembrò davvero di vivere in un altro mondo», ricorda Alessandro. L’anno seguente lo shock per la morte prematura di due cari amici. «Quei due lutti furono come un calcio fortissimo che mi spinse a cambiare vita». Quell’anno Alessandro, che all’epoca lavorava in Pediatria in un ospedale di Crema, trascorre i tre mesi di ferie in Bolivia, presso la missione di padre Leonardo Giannelli, a Santiago de Huata, sulle sponde del Lago Titicaca, il più alto del mondo. Nel 2006 decide di partire nuovamente per la Bolivia. «Pensavo di restarci un anno, invece eccomi ancora qui», sorride Alessandro.
Lui e Alina si sono conosciuti nel 2008, il matrimonio è stato celebrato a Santiago de Huata nel 2010. Oggi lui ha 43 anni, lei 30. Alina frequenta un corso per diventare infermiera specializzata e ogni giorno affronta lunghi spostamenti in autobus. «Mi piace pensare», confida Alessandro, «che un giorno potremo finalmente lavorare insieme, fianco a fianco, io medico e lei infermiera».
Alessandro Manciana svolge la sua attività di medico nell’ambito di un progetto di assistenza sanitaria del Celim (Centro laici italiani per le missioni) di Bergamo. Il progetto si chiama Una gota en salud (Una goccia di salute) ed è sostenuto dalle diocesi di Bergamo, Brescia e Gubbio, insieme con la Conferenza episcopale italiana. L’impegno dei bergamaschi per la Bolivia risale ai tempi di Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII. L’afflusso di volontari è continuo e il vescovo di El Alto è il bergamasco Eugenio Scarpellini Mazzoleni.
Viene da Bergamo anche Marta Guerini, 24 anni, tecnica radiologa e missionaria laica, che affianca il lavoro di Alessandro Manciana. Con loro c’è anche Carmen Huaylliri, un’infermiera boliviana dell’etnia Aymara. Grazie a lei, Alessandro riesce a comunicare con questa popolazione dell’altipiano, fiera e taciturna. «Non è facile conquistare la fiducia di queste persone e convincerle che il nostro lavoro è disinteressato», ammette Alessandro. «Ma gli Aymara sanno accogliermi con piccoli gesti gentili, come quello di stendere una coperta sulla panca dove mi fanno sedere».
Ogni settimana Alessandro, Marta e Carmen caricano l’auto con gli zaini, i farmaci e l’ecografo, poi partono per i villaggi e le missioni sparsi sull’altopiano, a Penas, Santiago de Huata, Escoma, Carabuco, dove vengono accolti da preti e altri volontari amici. Lì visitano i malati, casa per casa: Paola, Alicia, Gustavo, Asencia, Raymunda, Victoria, Julieta. E tanti altri. Per tutti Alessandro trova la parola giusta per rassicurare e consigliare. «Questo lavoro da medico itinerante è impegnativo, scomodo, ma alla fine», ammette il “doc”, «un sorriso, un caso che si risolve, una persona che sta meglio ti ripagano di tutte le fatiche».