Non sempre chi si aggiudica il premio Nobel per la letteratura è lo scrittore migliore. Stavolta invece sì: Alice Munro meritava da tempo l'alloro svedese. Nata nel 1931 a Wingham (Ontario), è autrice di racconti così intensi da farci sentire, qui ed ora, il brivido degli antichi maestri: nel silenzio fra le righe sembra riapparire il fantasma di Cechov, senza più ciliegie, con il poco di zucchero che c'era definitivamente trasformato in acido; nella scansione ritmica avverti il modello di Maupassant, da fulgida pulsione vitale a logora lastra riproduttiva; nelle solenni descrizioni paesaggistiche decifri Katherine Mansfield, privata di qualsiasi lusinga, o l'amara magniloquenza di Thomas Hardy.
Ma il timbro di voce è tutto suo: secco al pari dei referti clinici, inappellabile come i verdetti finali. Ed anche il contenuto sembra non essere mai cambiato da più di quarant'anni a questa parte: una donna sola, giovane oppure no, scruta dentro se stessa e non sa darsi pace. Cosa le è accaduto? Il lettore percorre ansioso le pagine per trovare una risposta credibile a questa domanda, ma ha l'impressione di attraversare un deserto di carcasse: sentimenti traditi, nostalgie velenose, desideri irrisolti. I frantumi dei rapporti umani perduti, o ancora da conquistare, sembra sussurrargli l'autrice fra una riga e l'altra, restano sospesi dentro i nostri cuori come pesci nell'acquario. Non ti fare illusioni.
Il libro d'esordio di Alice Munro, The dance of the happy shades, uscì nel 1968. Negli anni i suoi lettori più affezionati hanno potuto apprezzare la sua singolare forza espressiva. Prendiamo Runaway: Stories. Dopo esserci appuntati il titolo italiano, In fuga, ci chiediamo: da cosa scappano queste singolari creature? Non si sa. L'unica cosa certa è la loro inquietudine: triste, mortificata, inespressa, affranta, tutt'altro che prestigiosa; eppure densa di una segreta letizia. Qui scatta la novità. Il colpo basso. Nonostante tutto, le ragazze fragili e intelligenti che hanno visto svanire i propri talenti; le signore cariche d'esperienze acuminate come lance mortali, sulle quali Alice Munro concentra l'attenzione, vogliono continuare a vivere. Questo ce le fa amare. La bellezza dei loro mondi spirituali, ne siamo certi, è un fuoco che non smetterà mai di ardere e prosperare.
In Mobili di famiglia, un racconto di Nemico, amico, amante... (2003), testo chiave della letteratura contemporanea, la Munro aveva definito così il suo lavoro artistico: "Più simile a una mano che acciuffi qualcosa nell'aria che alla costruzione di storie."
Il vecchio dilemma fra natura e cultura illustra, seppure in filigrana, tutta la sua opera. I personaggi di Alice Munro entrano in contatto senza riuscire a trattenere gli aculei: si fanno male e basta. Il grandioso paesaggio canadese di rocce, alberi, acqua e neve sembra assistere indifferente ai contrasti umani di cui diventa testimone. I laghi, i cieli e le montagne della Columbia Britannica e dell'Ontario assomigliano a fili di sabbia che scendono dalla clessidra.
Nel trittico narrativo che vede protagonista Juliet, la scrittrice
canadese sembra volersi mettere in sintonia espressiva con
l'indecifrabile scenario circostante, facendo il vuoto intorno a noi: né
passato, né futuro, solo presente. Ma dimostra di saper sprofondare
nell'animo delle sue protagoniste: in Passione Grace torna nel luogo in
cui Neil appose il proprio marchio su di lei prima di suicidarsi.
Cercando in un groviglio la pepita d'oro che le sfuggì per sempre,
coglie l'essenza della realtà: "Vecchi hippy che vivevano da soli e che,
al posto delle tende alle finestre, usavano bandiere e fogli di
alluminio."
Il peso degli anni è forte anche in Scherzi del destino: Robin rivede
Danilo, giovane slavo con cui ebbe una fuggevolissima relazione, disteso
sul letto dei lungodegenti. O nell'ultimo racconto, Poteri: Nancy e
Ollie s'incontrano dopo una vita, ormai in disarmo, vanno a cena
insieme, poi l'uomo riporta la donna in albergo e, senza che la vecchia
amica apra bocca, anticipa la sua richiesta di salire in camera dicendo
no. "No, Nancy". Lei ne sa ricavare un dono prezioso: "Avrebbe potuto
trovarla arrogante, insopportabile. Ma quel che sentì in realtà fu solo
una limpida tenerezza che le parve, sul momento, più colma di
comprensione di qualsiasi parola mai ricevuta. No."
Il tempo, nei racconti di In fuga, ha una vita autonoma rispetto quella
degli individui. E' simile a un grosso animale in corsa: oscuro,
affannato, con una sicura cocciutaggine che lo porterà chissà dove. Le
tracce del suo passaggio sono visibili nelle strade asfaltate che hanno
sostituito i sentieri sterrati e nei corpi devastati di uomini e donne
non più giovani. E' di questo che Alice Munro ci parla. L'occhio della
scrittrice resta fermo sulle cose qualche secondo in più di quanto
sarebbe necessario per farcele vedere in modo realistico, ma non troppo,
o almeno non così tanto da giustificare una riflessione filosofica sul
loro senso. Ciò accade semmai a libro chiuso, nel momento in cui ci
rendiamo conto di aver osservato alcune radiografie dell'animo umano. La
diagnosi dobbiamo farla noi.
La letteratura insegna a vedere, non è una
medicina. Se sai guardare, sembra volerci suggerire la scrittrice, hai
capito la sostanza. Con la malattia, quale essa sia, devi imparare a
convivere, che tu lo voglia oppure no: sono i figli che perdi, i
genitori che non capisci, le incomprensioni che scorrono nel tuo stesso
sangue.