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domenica 06 ottobre 2024
 
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«Alla Fede di Atene 2004 direi: “Sogna, ragazza sogna”. Sono cresciuta, ma senza tradirmi»

05/08/2016  Intervista a Federica Pellegrini, campionessa del nuoto azzurro, una delle protagoniste più attese delle Olimpiadi.

Quel giorno nella penombra della saletta, nella pancia della piscina di Mestre, Federica Pellegrini era una liceale acqua e sapone con gli occhiali e la coda di cavallo. Tempi da adulta in vasca, 15 anni all'anagrafe e l’argento di Atene 2004 di là da venire. Neanche il tempo di un «Piacere, Federica» e aveva già messo le mani avanti: «Ho un brutto carattere, vedo tutto bianco o nero». Non male in faccia al primo sconosciuto che andava a chiederle di raccontarsi. Sembra l’esatto opposto, ma così fanno i timidi: mettono su una scorza ruvida per difendersi nel mondo.

Pochi mesi dopo, sul podio di Atene 2004, la liceale di Spinea era diventata Federica Pellegrini, senza il tempo di capire come si fa. Avrebbe potuto lasciarsi plasmare, come spesso accade ai campioni precoci, plastificati da un sistema che ne fa icone perfette per compiacere, ma senza sugo. E invece no, Federica s’è presa il rischio di scorticarsi un po’ crescendo così esposta, ma ha scelto di conservare la propria personalità, a costo di sbagliare qualche mossa, di scontentare qualcuno, di ferirsi nei passaggi critici: un percorso che l’ha resa, nella vittoria e nella sconfitta, persona autentica. Avrebbe avuto forse vita più facile nell'altro modo, ma non sarebbe stata Federica.


Dodici anni dopo, che cosa è rimasto del carattere di quella ragazzina?

«Su determinati valori, come la fiducia, la lealtà, lo sport pulito, la penso esattamente come allora. Di diverso c’è l’esperienza che, crescendo, ti fa riflettere sul fatto che in certi casi un po’ di diplomazia non guasta».

Cos'ha in comune la nuotatrice di oggi con la Federica di Atene?

 «La capacità di sognare e la certezza che non c’è una lampada da cui esca un genio cui esprimere desideri. I risultati che ottieni te li devi sudare, con sacrifici, sofferenza, dolore».

Hai mai la sensazione che sia successo tutto troppo in fretta?


«No, mi godo il mio sport, oggi come allora io nuoto per amore».

Argento ad Atene, oro a Pechino, 11 record del mondo, titoli mondiali ed europei come se piovesse tra 200 e 400 stile libero: che cosa resta dopo?


«Una certa autostima. Nella prima parte della mia vita ho scelto di fare una cosa sola e di impegnarmi a fondo, per farla molto bene».

È vero, come ha scritto Dino Zoff, che dura solo un attimo la gloria?


«La gloria penso di sì. Ma non cerchiamo la gloria nello sport, lo facciamo perché lì più che in altre attività viviamo momenti unici: una specie di magia, un privilegio pazzesco. Ed è tutto tuo, nessuno te lo può toccare».

Uscendo quinta dalla vasca a Londra hai detto: «Non potevo fare di più». È complicato essere quella da cui tutti s’aspettano che vinca sempre?


«Non mi sono mai nascosta e neanche l’ho fatto dopo la delusione di Londra. A quell'Olimpiade non sono arrivata preparata come dovevo e, pragmaticamente, l’ho riconosciuto».

Oggi un Paltrinieri in squadra aumenta la competizione o aiuta a suddividersi le responsabilità?


«Niente di tutto questo. C’è spazio per tutti. Il nuoto è uno sport individuale, anche se la gioia di vivere in un gruppo che si sostiene a vicenda trasmette un’energia positiva di cui è difficile fare a meno».

Che cosa ti ha fatto resistere fin qui mentre le avversarie passavano? 

«Me lo chiedo anche io. Direi la disciplina, il non aver fatto mai sconti a me stessa. Sono straesigente, non m’accontento mai. Aggiungerei che questa è la mia vita. Chi ha avuto il permesso di entrarci sa che la regola del gioco è dare il massimo tutti insieme, ognuno per le sue competenze».

Quanto è stato complicato sintonizzarsi con il nuovo maestro dopo la morte di Castagnetti?

«Molto dura. Elaborato il lutto, hai due possibilità: vivi in sottrazione oppure aggiungi valore alla novità che devi affrontare. Ho scelto la seconda strada, anche se c’è voluto tempo».

In quali frangenti l’allenatore è fondamentale per un campione affermato che in teoria sa già tutto?

«All’interno dell’evento, magari pochi attimi prima della gara. Basta un gesto, una parola, un codice non scritto. Se c’è, fa tutta la differenza del mondo per un’atleta come me che vive quell’impegno con sana paranoia. Se non c’è, be’… abbiamo un problema».

Hai mai paura che, dopo, la vita quotidiana sembrerà piccola di fronte all’intensità vissuta fin qui?

«Non mi pongo oggi questa domanda, anche se ne colgo ogni sfumatura. Penso che se ho fatto molto bene una cosa per i primi trent’anni della mia vita, magari ne sceglierò un’altra da fare per i secondi trenta. Ma non vivo con quest’ansia. Conoscendomi, non credo che cambierò mentalità».

Tre cose che non possono mancare nella valigia per Rio.


«Smartphone, un costume di ricambio e serenità».

Com’è cambiata Federica Pellegrini in quattro Olimpiadi?

Sono più “in controllo”. “I’m in the zone”, direbbero nel basket Nba».

La tua famiglia verrà a Rio?

«Resteranno a casa, c’è anche una piccola scaramanzia dietro questa scelta. Ma la famiglia c’è sempre, anche quando è lontana».

Federica Pellegrini e Filippo Magnini, coppia nella vita: si riesce a tenere il nuoto fuori dalla porta?


«Ci proviamo con crescente successo. Non potrebbe essere altrimenti, a casa abbiamo entrambi bisogno di staccare, riposare e recuperare soprattutto le energie mentali».

Se incontrassi oggi, con il senno di poi, la Federica bambina delle prime gare giovanili che cosa le diresti?


«Le citerei una canzone di Roberto Vecchioni: “Sogna, ragazza, sogna…”».

Un colpetto alla fronte e due sul cuore sul blocco di partenza: che cosa rappresenta quel gesto?

«Un rituale nato un po’ per caso che però sintetizza alla perfezione i punti da cui tutto parte».

Porti la bandiera il giorno del tuo compleanno: che cosa significa per te?

«Un onore immenso. Sono molto patriottica, immagino la cerimonia di inaugurazione come la rappresentazione dei valori che tengono insieme tutti noi atleti italiani che dal giorno dopo sfideremo il mondo».

L’avere un’immagine pubblica ti ha cambiata?

«Penso e spero di no. Ho schiacciato un chiodo di qualche anno fa: ora so che essere simpatica a tutti non è possibile. Quindi non mi curo della cattiveria gratuita, specie quella che impazza sui social network».

Se avessi potere assoluto per un giorno, che cosa cambieresti nel sistema dello sport?


«Ucciderei il doping. Ma servirebbe un potere da supereroi, dove le storie hanno sempre il lieto fine. Favole, ahimè».

Raccontaci l’occasione più emozionante che i successi nel nuoto ti hanno regalato...

 «Potrei dirne tante, restringo il campo e scelgo la volta che ho sentito cosa si prova a buttarsi con il paracadute. Mio padre lo ha fatto per tanti anni e mi aveva anticipato che sarebbe stata un’emozione forte. Quando però la vivi sul serio, è qualcosa di quasi inspiegabile: un concentrato di sensazioni che ti blocca il respiro. E quando sei a terra hai un’adrenalina indescrivibile, mai avvertita prima».

Che cosa ti farà dire, uscendo dalla vasca di Rio: «Sono fiera di me»?


«Lo dirò prima a me stessa e poi a tutti. Basta aspettare ormai qualche giorno…».

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