Quel giorno nella penombra
della saletta, nella
pancia della piscina di
Mestre, Federica Pellegrini
era una liceale acqua
e sapone con gli occhiali e
la coda di cavallo. Tempi
da adulta in vasca, 15 anni
all'anagrafe e l’argento di Atene 2004
di là da venire. Neanche il tempo di un
«Piacere, Federica» e aveva già messo
le mani avanti: «Ho un brutto carattere,
vedo tutto bianco o nero». Non
male in faccia al primo sconosciuto
che andava a chiederle di raccontarsi.
Sembra l’esatto opposto, ma così
fanno i timidi: mettono su una scorza
ruvida per difendersi nel mondo.
Pochi mesi dopo, sul podio di Atene
2004, la liceale di Spinea era diventata
Federica Pellegrini, senza il tempo
di capire come si fa. Avrebbe potuto
lasciarsi plasmare, come spesso accade
ai campioni precoci, plastificati da un
sistema che ne fa icone perfette per
compiacere, ma senza sugo. E invece
no, Federica s’è presa il rischio di scorticarsi
un po’ crescendo così esposta, ma ha scelto di conservare la propria
personalità, a costo di sbagliare qualche
mossa, di scontentare qualcuno, di
ferirsi nei passaggi critici: un percorso
che l’ha resa, nella vittoria e nella
sconfitta, persona autentica. Avrebbe
avuto forse vita più facile nell'altro
modo, ma non sarebbe stata Federica.
Dodici anni dopo, che cosa è rimasto
del carattere di quella ragazzina?
«Su determinati valori, come la fiducia,
la lealtà, lo sport pulito, la penso
esattamente come allora. Di diverso
c’è l’esperienza che, crescendo, ti fa riflettere
sul fatto che in certi casi un po’
di diplomazia non guasta».
Cos'ha in comune la nuotatrice di
oggi con la Federica di Atene?
«La capacità di sognare e la certezza
che non c’è una lampada da cui esca
un genio cui esprimere desideri. I risultati
che ottieni te li devi sudare, con
sacrifici, sofferenza, dolore».
Hai mai la sensazione che sia successo
tutto troppo in fretta?
«No, mi godo il mio sport, oggi
come allora io nuoto per amore».
Argento ad Atene, oro a Pechino,
11 record del mondo, titoli mondiali
ed europei come se piovesse tra 200 e
400 stile libero: che cosa resta dopo?
«Una certa autostima. Nella prima
parte della mia vita ho scelto di fare
una cosa sola e di impegnarmi a fondo,
per farla molto bene».
È vero, come ha scritto Dino Zoff, che dura solo un attimo la gloria?
«La gloria penso di sì. Ma non cerchiamo la gloria nello sport, lo facciamo perché lì più che in altre attività viviamo momenti unici: una specie di magia, un privilegio pazzesco. Ed è tutto tuo, nessuno te lo può toccare».
Uscendo quinta dalla vasca a Londra hai detto: «Non potevo fare di più». È complicato essere quella da cui tutti s’aspettano che vinca sempre?
«Non mi sono mai nascosta e neanche l’ho fatto dopo la delusione di Londra. A quell'Olimpiade non sono arrivata preparata come dovevo e, pragmaticamente, l’ho riconosciuto».
Oggi un Paltrinieri in squadra aumenta la competizione o aiuta a suddividersi le responsabilità?
«Niente di tutto questo. C’è spazio per tutti. Il nuoto è uno sport individuale, anche se la gioia di vivere in un gruppo che si sostiene a vicenda trasmette un’energia positiva di cui è difficile fare a meno».
Che cosa ti ha fatto resistere fin qui mentre le avversarie passavano?
«Me lo chiedo anche io. Direi la disciplina, il non aver fatto mai
sconti a me stessa. Sono straesigente,
non m’accontento mai. Aggiungerei
che questa è la mia vita. Chi ha avuto
il permesso di entrarci sa che la regola
del gioco è dare il massimo tutti insieme,
ognuno per le sue competenze».
Quanto è stato complicato sintonizzarsi
con il nuovo maestro dopo la
morte di Castagnetti?
«Molto dura. Elaborato il lutto, hai
due possibilità: vivi in sottrazione oppure
aggiungi valore alla novità che
devi affrontare. Ho scelto la seconda
strada, anche se c’è voluto tempo».
In quali frangenti l’allenatore è fondamentale per un campione affermato che in teoria sa già tutto?
«All’interno dell’evento, magari
pochi attimi prima della gara. Basta
un gesto, una parola, un codice non
scritto. Se c’è, fa tutta la differenza del
mondo per un’atleta come me che vive
quell’impegno con sana paranoia. Se
non c’è, be’… abbiamo un problema».
Hai mai paura che, dopo, la vita
quotidiana sembrerà piccola di fronte
all’intensità vissuta fin qui?
«Non mi pongo oggi questa domanda,
anche se ne colgo ogni sfumatura.
Penso che se ho fatto molto bene
una cosa per i primi trent’anni della
mia vita, magari ne sceglierò un’altra
da fare per i secondi trenta. Ma non
vivo con quest’ansia. Conoscendomi,
non credo che cambierò mentalità».
Tre cose che non possono mancare
nella valigia per Rio.
«Smartphone, un costume di ricambio
e serenità».
Com’è cambiata Federica Pellegrini
in quattro Olimpiadi?
Sono più “in controllo”. “I’m in the
zone”, direbbero nel basket Nba».
La tua famiglia verrà a Rio?
«Resteranno a casa, c’è anche una
piccola scaramanzia dietro questa
scelta. Ma la famiglia c’è sempre, anche
quando è lontana».
Federica Pellegrini e Filippo Magnini,
coppia nella vita: si riesce a tenere
il nuoto fuori dalla porta?
«Ci proviamo con crescente successo.
Non potrebbe essere altrimenti,
a casa abbiamo entrambi bisogno di
staccare, riposare e recuperare soprattutto
le energie mentali».
Se incontrassi oggi, con il senno di
poi, la Federica bambina delle prime
gare giovanili che cosa le diresti?
«Le citerei una canzone di Roberto
Vecchioni: “Sogna, ragazza, sogna…”».
Un colpetto alla fronte e due sul
cuore sul blocco di partenza: che cosa
rappresenta quel gesto?
«Un rituale nato un po’ per caso
che però sintetizza alla perfezione i
punti da cui tutto parte».
Porti la bandiera il giorno del tuo
compleanno: che cosa significa per te?
«Un onore immenso. Sono molto
patriottica, immagino la cerimonia di
inaugurazione come la rappresentazione
dei valori che tengono insieme
tutti noi atleti italiani che dal giorno
dopo sfideremo il mondo».
L’avere un’immagine pubblica ti
ha cambiata?
«Penso e spero di no. Ho schiacciato
un chiodo di qualche anno fa: ora
so che essere simpatica a tutti non è
possibile. Quindi non mi curo della
cattiveria gratuita, specie quella che
impazza sui social network».
Se avessi potere assoluto per un
giorno, che cosa cambieresti nel sistema
dello sport?
«Ucciderei il doping. Ma servirebbe
un potere da supereroi, dove le storie
hanno sempre il lieto fine. Favole,
ahimè».
Raccontaci l’occasione più emozionante
che i successi nel nuoto ti
hanno regalato...
«Potrei dirne tante, restringo il
campo e scelgo la volta che ho sentito
cosa si prova a buttarsi con il paracadute.
Mio padre lo ha fatto per tanti
anni e mi aveva anticipato che sarebbe
stata un’emozione forte. Quando però
la vivi sul serio, è qualcosa di quasi inspiegabile:
un concentrato di sensazioni
che ti blocca il respiro. E quando
sei a terra hai un’adrenalina indescrivibile,
mai avvertita prima».
Che cosa ti farà dire, uscendo dalla
vasca di Rio: «Sono fiera di me»?
«Lo dirò prima a me stessa e poi a
tutti. Basta aspettare ormai qualche
giorno…».