«Spesso non sono né le più belle né le più alte, eppure hanno in sé stesse qualcosa che le differenzia dalle altre montagne. Perché mai proprio quelle, e non altre, sono diventate sacre agli occhi dell’uomo?». È questo interrogativo ricorrente nelle sue spedizioni che ha trasformato spesso Reinhold Messner, uomo che ha sempre immaginato la montagna non solo come luogo di gesti sportivi estremi, in un alpinista-pellegrino alla ricerca del sacro che emanano le vette, o meglio, certe vette.
«Così» – spiega – «per anni ho viaggiato in tutti i continenti e ho visitato questi monti che vengono definiti “divini” dalle popolazioni locali per capire il mistero di quella sacralità». Da queste esperienze dello “spirito” ne è uscito Le montagne degli dei (Corbaccio), dove viene a galla un aspetto del grande scalatore, quello più interiore, spesso offuscato dalla narrazione delle imprese; quello di chi vuole “andare oltre” e si pone l’eterna domanda che si sono posti gli uomini fin dalle origini di fronte alla potenza della natura rappresentata dalla grandiosità delle montagne: la vetta non sta lì a dirci qualcosa su un aldilà che non possiamo spiegare, ma che esiste? Messner non ha mai amato usare il termine “Dio” e si professa scettico. «Preferisco parlare di Aldilà», mi confessò un giorno: «Sono un possibilista: immagino che ci sia una dimensione che è infinita della quale non abbiamo la minima idea. So solo che più conosciamo noi stessi e il nostro mondo e più capiamo che l’Aldilà deve esistere».
Un aldilà che ha molto a che fare con la montagna. «Solo sulla cima si incontrano cielo e infinito con la parte terrestre, cioè quella profana del nostro cosmo. Da sempre le religioni hanno considerato alcune montagne “sacre” o, comunque, luoghi di epifanie. Sappiamo, per esempio, che nel Tibet alcune cime sono considerate dagli indigeni piazze dove danzano gli dei; che il pantheon greco abitava l’Olimpo. Ma le stesse credenze si ritrovano nelle lontanissime civiltà americane e australiane».
UN VIAGGIO SUGGESTIVO TRA MITI E RELIGIONI
Ma cos’hanno queste montagne di speciale?
«Aspetti molto particolari. In Australia, per esempio, il famoso Uluru, il nome indigeno dell’Ayers Rock, ha l’aspetto di un immenso meteorite caduto dal cielo nel nulla del deserto e gli aborigeni che l’hanno visto per la prima volta hanno subito pensato a qualcosa che provenisse dall’aldilà. In Africa, nel Nord della Tanzania, l’Ol Doinyo Lengai, nella lingua masai “montagna divina”, è una poderosa piramide vulcanica. Il cratere in sommità è un pentolone in continua ebollizione, immerso nel fumo. Per chi sale ancora oggi è tangibile l’idea della potenza degli dei che ha impressionato le tribù masai, le quali vi hanno collocato il regno dell’unico dio Engai».
E il Sinai per gli ebrei?
«È diverso: il Sinai è un monte diventato sacro, non per un aspetto particolare, ma per un gesto umano decisivo, quello di Mosè, che in una situazione delicata del suo popolo porta a valle le Tavole della Legge. Per noi occidentali il Sinai è una montagna unica, benché nessuno conosca il punto esatto dove Jahvè ha dato agli israeliti i Dieci Comandamenti: lì, guarda caso in un luogo elevato, sarebbe nata la religione monoteista».
E le montagne sacre dell’Himalaya?
«Inizialmente tutte le cime himalayane erano divine ed era vietato salirvi, perché le vette facevano parte dell’Aldilà. Poi con l’arrivo delle spedizioni alpinistiche inglesi, che per prime sono venute a conquistare queste vette inviolate, è seguito un processo di profanazione e desacralizzazione che ha salvato poche eccezioni».
L’Everest è stato tra i primi a perdere questa sacralità, quindi.
«È così. Un tempo anche l’Everest, il cui nome in tibetano è Chomolungma (“Madre dell’universo”) era una montagna sacra. Oltre al nome, che ora è quello di un topografo inglese, gli è stato rubato il fascino della divinità, perché questa dimensione risiedeva nella sua inaccessibilità. Le colonne umane, portate dal turismo di alta quota, lo hanno profanato».
Quello che non è accaduto per il Monte Kailash, nella catena transhimalayana. Perché?
«Questa montagna alta quasi 7 mila metri che si trova in Tibet è la più sacra di tutta quell’area. Un’antica leggenda narra che il Kailash, residenza di Shiva, rappresenti l’asse terrestre. Un punto stabile nell’eterna rotazione del mondo. Un luogo lontano da qualsiasi contaminazione profana. Nessuno vi può salire, ma vi si può girare attorno, da migliaia d’anni, attraverso la kora, un pellegrinaggio di tre giorni che qualcuno compie strisciando per terra come fosse un serpente. L’ho fatto più volte, assieme all’amico Ralf-Peter Märtin (coautore del libro, ndr). Una volta realizzata, la circumambulazione cancella i peccati di una vita intera».
Cosa pensi delle croci sulle cime?
«Le prime a comparire nelle Alpi datano al periodo napoleonico: volevano essere un sostegno morale alle popolazioni locali contro le truppe francesi, ritenute anticlericali. Ma molto prima di essere cristiane le nostre montagne erano già sacre. Anzi, da quando le fedi monoteiste hanno soppiantato le religioni naturali le montagne hanno perduto un po’ del loro carisma. Ma continuano a evocare l’idea di conoscenza ulteriore e ponte verso l’aldilà per i pellegrini di ogni credo religioso»