Oggi la parte fiamminga e domani quella francofona. Papa Francesco, in Belgio per i 600 anni dell’Università di Lovanio, il più antico ateneo cattolico del mondo (essendo stato fondato nel 1425), incontra prima i docenti. Un centro di cultura, di educazione, ma anche di accoglienza. L’incontro si apre con un video sull’assistenza ai rifugiati e con alcune loro testimonianze. «Milioni di persone sono state sradicate dalla violenza politica, dai cambiamenti climatici e dalle violazioni dei diritti umani. Alla fine del 2023, circa 117 milioni di persone sono state sfollate con la forza. Le numerose violazioni dei diritti umani non sono solo la causa scatenante; troppo spesso continuano durante la fuga. Alle frontiere europee, la detenzione, le violenze della polizia, lo sfruttamento sessuale o la separazione delle famiglie fanno troppo spesso parte del vissuto dei rifugiati. Questo cumulo di traumi comporta una grande vulnerabilità psicosociale. Molti rifugiati sono stati colpiti nella loro fiducia di fondo negli altri e in un mondo prevedibile (ragionevole) e significativo. Stanno bussando alla porta, con la richiesta insistente che venga ripristinata la loro fiducia e la loro dignità. Questo bussare alla porta è più di una richiesta di carità. Sono in gioco la giustizia e la responsabilità. I nostri Paesi non sono testimoni moralmente neutrali. Hanno obblighi che derivano dal senso di umanità e dal diritto riconosciuto a livello internazionale, ma anche dalla responsabilità di una storia violenta di colonizzazione occidentale che ha contribuito alla creazione di Stati falliti, di confini artificiali e di dipendenza economica. Dietro l'appello dei rifugiati si nasconde la richiesta di una società che osi ripensare e ridistribuire il proprio universo. Sia l'università che la Chiesa operano in questa realtà che ci stimola e ci sfida. Entrambe sentono bussare insistentemente alla loro porta.», spiega il rettore Luc Sels nel suo saluto di benvenuto.
E aggiunge che «l'afflusso di rifugiati sta dando luogo a un dibattito vivace e polarizzato. Alcuni sostengono la necessità di un'ampia solidarietà, altri, al contrario, il rafforzamento delle frontiere. Troppo spesso il rifugiato viene presentato non come una vittima di violazioni dei diritti umani, ma come una minaccia al nostro ambiente culturale, alla nostra prosperità e persino alla nostra sicurezza. Dopo la Seconda guerra mondiale, abbiamo concordato che gli Stati dovevano fornire accesso e protezione alle vittime di persecuzioni, ma oggi anche questo principio viene messo in discussione. Come comunità accademica, ci opponiamo alla globalizzazione dell'indifferenza. Ci opponiamo alle ideologie che distruggono la diversità rendendo l'assimilazione generale una condizione di accettazione».
Sul tavolo di discussione il rettore, oltre al tema dei migranti mette anche quello degli abusi. «Lo shock degli abusi sessuali e il modo in cui sono stati affrontati, correttamente o meno, in passato, indeboliscono l'autorità morale con cui la Chiesa può esprimersi nel nostro mondo occidentale», dichiara e sottolinea la necessità di «un dialogo onesto, impegnato e cordiale con le vittime, riconoscendo apertamente gli errori commessi». E, ancora, l’«enorme divario tra uomini e donne in una Chiesa che è così spesso guidata de facto da donne» e il sacerdozio femminile. «La Chiesa non sarebbe più cordiale se desse alle donne un posto di rilievo, incluso nel sacerdozio?», chiede il rettore. E insiste anche sul rapporto con la comunità Lgbtq+. «La Chiesa non guadagnerebbe in autorità morale nelle nostre regioni se non trattasse la questione della diversità di genere in modo così rigido e se, come l'università, mostrasse una maggiore apertura verso la comunità LGBTQ+?», domanda. «È incoraggiante constatare che i nostri vescovi fiamminghi hanno creato un punto di contatto “omosessualità e fede” che organizza, ad esempio, un momento di preghiera ecumenica per la comunità LGBTQ+ durante il Gay Pride di Anversa. In questo caso, la Chiesa di tutto il mondo è chiamata a far dialogare le recenti scoperte scientifiche con la teologia. Sono lieto che i nostri teologi stiano esplorando queste difficili questioni, concentrandosi in particolare su come la Chiesa possa essere vicina alle persone LGBTQ+».
«La nostra ispirazione comune», conclude il rettore, ci sfida a prendere sul serio la paura «lavorando per una “apertura creativa” verso tutti coloro che possono sembrare “diversi” in termini di religione, di ideologia politica, di cultura o di origine, ma con i quali condividiamo profondamente la nostra umanità. È proprio per questo motivo che l'apertura creativa offre la possibilità di trovare soluzioni che non saremmo in grado di scoprire nel recinto delle nostre barriere di sicurezza. Questa apertura richiede una conversione della mente e del cuore per affrontare ogni altro essere umano non come un peso, ma come un arricchimento».
Si commuove, il Papa quando, alle parole del rettore, seguono le immagini del video. Una ragazza etiope e un ragazzo palestinese raccontano la loro vita di rifugiati, il distacco dalla famiglia, il sentirsi insieme sicuri e insicuri, i sogni a cui restano appesi perché «finche sogno sono vivo, i morti non sognano».
E poi prende la parola leggendo il testo già preparato che riportiamo integralmente:
«Sono lieto di trovarmi qui in mezzo a voi e ringrazio il Rettore per le sue parole di benvenuto, con le quali ha ricordato la storia e la tradizione in cui questa Università è radicata, come pure alcune delle principali sfide odierne da cui siamo tutti interpellati. È questo il primo compito dell’Università: offrire una formazione integrale perché le persone ricevano gli strumenti necessari a interpretare il presente e a progettare il futuro.
La formazione culturale, infatti, non è mai fine a sé stessa e le Università non devono correre il rischio di diventare delle “cattedrali nel deserto”; esse sono, per loro natura, luoghi propulsori di idee e di stimoli nuovi per la vita e il pensiero dell’uomo e per le sfide della società, cioè spazi generativi. È bello pensare che l’Università genera cultura, genera idee, ma soprattutto promuove la passione per la ricerca della verità, e questo a servizio del progresso umano. In particolare, gli Atenei cattolici, come questo, sono chiamati a “portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte”.
Desidero allora rivolgervi un semplice invito: allargate i confini della conoscenza! Non si tratta di moltiplicare le nozioni e le teorie, ma di fare della formazione accademica e culturale uno spazio vitale, che comprende la vita e parla alla vita.
C’è una breve storia biblica narrata dal Libro delle Cronache, che mi piace qui richiamare. Il protagonista è Iabes, che rivolge a Dio questa supplica: “Se tu mi benedicessi e allargassi i miei confini”. Iabes significa “dolore”, ed era stato chiamato così perché la mamma, nel partorirlo, aveva sofferto molto. Ma ora Iabes non vuole restare chiuso nel proprio dolore, trascinandosi nel lamento, e prega il Signore di “allargare i confini” della sua vita, per entrare in uno spazio benedetto, più grande, più accogliente. Il contrario sono le chiusure. Allargare i confini e diventare uno spazio aperto per l’uomo e per la società è la grande missione dell’Università.
Nel nostro contesto, infatti, ci troviamo davanti a una situazione ambivalente, in cui i confini sono ristretti. Da una parte, siamo immersi in una cultura segnata dalla rinuncia alla ricerca della verità. Abbiamo perduto l’inquieta passione del cercare, per rifugiarci nella comodità di un pensiero debole, il dramma del pensiero debole, per rifugiarci nella convinzione che tutto sia uguale, che una cosa valga l’altra, che tutto sia relativo.
Dall’altra parte, quando nei contesti universitari e anche in altri ambiti si parla della verità, si scade spesso in un atteggiamento razionalista, secondo cui può essere considerato vero soltanto ciò che possiamo misurare e sperimentare, come se la vita fosse ridotta unicamente alla materia e a ciò che è visibile. In tutti e due i casi i confini sono ristretti. In tutte e due i casi i confini sono ristretti
Sul primo versante, abbiamo la stanchezza dello spirito, che ci consegna all’incertezza permanente e all’assenza di passione, come se fosse inutile cercare un senso in una realtà che rimane incomprensibile. Questo sentimento emerge spesso in alcuni personaggi delle opere di Franz Kafka, che ha descritto la condizione tragica e angosciante dell’uomo del Novecento. In un dialogo tra due personaggi di un suo racconto, troviamo questa affermazione: “Credo che lei non si occupi della verità soltanto perché è troppo faticosa”. Cercare la verità è faticoso, è vero, perché ci costringe a uscire da noi stessi, a rischiare, a farci delle domande. E quindi ci affascina di più, nella stanchezza dello spirito, una vita superficiale che non si pone troppi interrogativi; così come allo stesso modo ci attira di più una “fede” facile, leggera, confortevole, che non mette mai nulla in discussione.
Sul secondo versante, invece, abbiamo il razionalismo senz’anima, in cui oggi rischiamo di cadere nuovamente, condizionati dalla cultura tecnocratica, ci porta a questo. Quando si riduce l’uomo alla sola materia, quando la realtà viene costretta dentro i limiti di ciò che è visibile; quando la ragione è soltanto quella matematica, la ragione è quella “da laboratorio”, allora viene meno lo stupore, non si può pensare. Lo stupore è l’inizio della filosofia, è l’inizio del pensiero. Se viene meno lo stupore viene meno quella meraviglia interiore che ci spinge a cercare oltre, a guardare il cielo, a scovare quella verità nascosta che affronta le domande fondamentali: perché vivo? che senso ha la mia vita? qual è lo scopo ultimo e l’ultima mèta di questo viaggio? Si chiedeva Romano Guardini: “Perché l’uomo, nonostante tutto il progresso, è tanto sconosciuto a sé stesso e lo diviene sempre più? Perché ha perduto la chiave per comprendere l’essenza dell’uomo. La legge della nostra verità dice che l’uomo si riconosce soltanto partendo dall’alto, al di sopra di lui, da Dio, perché egli trae l’esistenza solo da Lui”.
.Cari Professori, contro la stanchezza dello spirito e il razionalismo senz’anima, impariamo anche noi a pregare come Iabes: “Signore, allarga i nostri confini!”. Chiediamo che Dio benedica il nostro lavoro, al servizio di una cultura capace di affrontare le sfide di oggi. Lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto in dono ci spinge a cercare, ad aprire gli spazi del nostro pensare e del nostro agire, fino a condurci alla verità tutta intera. Abbiamo la consapevolezza – come ci ha detto il Rettore all’inizio – “che non sappiamo ancora tutto”, ma, al tempo stesso, è proprio questo limite che deve spingervi sempre in avanti, aiutarvi a mantenere accesa la fiamma della ricerca e a rimanere una finestra aperta sul mondo di oggi.
E, a questo proposito, voglio dirvi sinceramente: grazie! Grazie perché, allargando i confini, vi siete fatti spazio accogliente per tanti rifugiati che sono costretti a fuggire dalle loro terre, tra mille insicurezze, enormi disagi e sofferenze a volte atroci. Grazie. Abbiamo visto poco fa, nel video, una testimonianza molto toccante. E mentre alcuni invocano il rafforzamento dei confini, voi, in quanto comunità universitaria, i confini li avete allargati, grazie. Avete aperto le braccia per accogliere queste persone segnate dal dolore, per aiutarle a studiare e a crescere. Grazie. Ci serve questo: una cultura che allarga i confini, che non è “settaria” e voi non siete settari – grazie - né si pone al di sopra degli altri ma, al contrario, sta nella pasta del mondo portandovi dentro un lievito buono, che contribuisce al bene dell’umanità. Questo compito, questa “speranza più grande”, è affidata a voi!
Un teologo di questa terra, figlio e docente di questa Università, ha affermato: “Siamo noi il roveto ardente che permette a Dio di manifestarsi”. Conservate accesa la fiamma di questo fuoco; allargate i confini! Siate inquieti, per favore, con l’inquietudine dlela vita. Siate cercatori della verità e non spegnete mai la passione, per non cedere all’accidia del pensiero che è una malattia molto brutta. Siate protagonisti nel generare una cultura dell’inclusione, della compassione, dell’attenzione verso i più deboli e verso le grandi sfide del mondo in cui viviamo.
E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!».