C’è chi mangia gluten free senza essere celiaco. E chi invece elimina latticini, legumi, uova, crostacei, pomodori. Un italiano su due cambia menù nella convinzione di essere intollerante o allergico a qualcosa, mentre le stime più recenti indicano che il problema interessa solo il 7-8 per cento dei bambini di età inferiore ai 3 anni e circa il 3-4 per cento della popolazione adulta.
Perfettamente in salute, dunque, milioni di persone imputano i loro malesseri a qualche cibo per pura suggestione o condizionamento psicologico, spendendo per la diagnosi centinaia di euro in test privi di validità scientifica, che hanno la stessa attendibilità del lancio di una monetina.
«Spesso basta avere una stanchezza inspiegabile, qualche difficoltà digestiva o dolori alle articolazioni per prendere di mira un ingrediente alimentare o un’intera categoria di prodotti», spiega la dottoressa Barbara Paolini, vice segretario nazionale dell’Associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica (www.adiitalia.net). «Ipotizzare intolleranze o allergie sta diventando una moda o, quanto meno, il modo per dare una risposta rapida a un problema di salute o un disturbo generico, come può essere il semplice aumento di peso, che nella maggior parte dei casi invece dipende da uno stile di vita scorretto».
In realtà, l’unico modo per ottenere un verdetto attendibile è rivolgersi a un centro ospedaliero specializzato in allergologia, con medici capaci di gestire in modo completo non soltanto la fase diagnostica, ma anche l’eventuale cura. «Attraverso un colloquio approfondito, viene fatta un’anamnesi accurata della storia clinica del paziente e delle sue abitudini alimentari: a quel punto, in base alla sintomatologia accusata, si stabiliscono i test più opportuni da effettuare, visto che non esiste una prova valida per tutte le forme di allergia o intolleranza».
IL PERCORSO UFFICIALE
Nel caso delle allergie, la diagnosi è semplice e immediata solo quando i sintomi (piuttosto severi) compaiono subito dopo l’assunzione di un determinato alimento, tanto da portare a visite urgenti. Se invece la reazione è ritardata o incostante e i sintomi sono più lievi e sfumati, è necessario sottoporsi a esami standardizzati, come il Prick test, ad esempio, che consiste nel posizionare sull’avambraccio alcune gocce di estratti allergenici (di tipo alimentare in questo caso) per poi pungere la pelle e osservare l’eventuale comparsa, entro venti minuti, di un pomfo caratterizzato da un piccolo gonfiore e arrossamento localizzato.
In alternativa, si può ricorrere al Prick by prick, dove si utilizzano direttamente i cibi freschi, soprattutto di origine vegetale, che vengono “bucati” con la lancetta sterile con la quale poi si andrà a scalfire leggermente la cute del paziente. «Esistono anche esami sierologici, come il dosaggio delle IgE totali e specifiche, che ricercano nel sangue gli anticorpi verso determinate sostanze, oppure quelli che sfruttano le nuove tecnologie in diagnostica molecolare, molto più sofisticati e in grado di individuare la singola molecola a cui si è allergici», illustra Paolini. «Molto raffinate, infatti, le attuali metodiche diagnostiche consentono di fornire ai pazienti indicazioni più accurate rispetto al passato, migliorando nettamente la loro qualità di vita: in alcuni casi, ad esempio, è possibile consumare un frutto a cui si è allergici togliendone la buccia oppure mangiare senza problemi un determinato alimento una volta cotto. Dipende dalle proteine specifiche che sono coinvolte nell’allergia, che oggi è possibile conoscere».
Se tutte queste procedure non forniscono un risultato concordante o decisivo, si può prevedere un ulteriore test di provocazione orale, che consiste nella somministrazione di dosi progressivamente crescenti dell’alimento – sotto forma di gocce, capsule o pappine insapori – fino allo scatenamento dei sintomi: questo esame però va eseguito esclusivamente in centri ospedalieri specializzati e sotto stretto controllo medico per la possibilità di reazioni anche gravi.
Se invece il problema è un’intolleranza, gli unici esami attualmente riconosciuti dalla medicina convenzionale sono rivolti a un solo alimento, come il lattosio (per cui si utilizza il Breath test, che analizza campioni di aria espirata) o il glutine (prelievi del sangue concentrati su una coppia di anticorpi specifici, gli Aga e gli Ema, e un prelievo bioptico di mucosa del tratto gastroenterico mediante esofagogastroduodenoscopia e pancolonscopia).
Altri disturbi non possono essere definiti vere intolleranze: digestione lenta, gonfiore addominale o cattivo funzionamento dell’intestino, ad esempio, possono essere correlati a un’alterazione momentanea della flora intestinale, per cui la cura e la dieta devono essere attentamente valutati con il proprio allergologo e gastroenterologo, evitando di eliminare improvvisamente e senza motivo intere categorie di alimenti con diete fai-da-te. «Al contrario dell’allergia, infatti, alcune intolleranze possono non essere genetiche ma insorgere all’improvviso, magari a causa di cattive abitudini alimentari o particolari patologie intestinali, che talvolta possono essere corrette e addirittura risolte».
GLI ESAMI “FARLOCCHI”
Negli ultimi anni, in questo settore, si è diffusa la popolarità di test diagnostici alternativi e senza alcuna validità scientifica, eseguiti su disparati campioni biologici (come sangue, saliva, capelli), che – oltre a generare confusione nella popolazione – comportano una spesa piuttosto sostenuta, compresa fra i 90 e i 1.500 euro. Di solito, si ricorre a questi esami per la semplicità della procedura, l’assenza di lunghe attese e la possibilità di eseguirli sotto casa, magari in farmacia, erboristeria, centri benessere o presso lo studio di un naturopata.
«Il loro utilizzo è pericoloso in maniera indiretta, nel senso che non comporta rischi durante l’esecuzione, ma di sicuro impedisce al paziente di scoprire il vero problema», riferisce Paolini. «Talvolta si ha un ritardo diagnostico, ad esempio scambiando patologie gravi per presunte intolleranze; in altri casi, invece, un falso positivo può generare inutili restrizioni a tavola: se non adeguatamente gestite e monitorate da un professionista sanitario, le diete che escludono determinati cibi possono comportare un rischio nutrizionale non trascurabile, pericoloso per lo stato di salute e addirittura responsabile di scarsa crescita e malnutrizione nei bambini».
Allora, da quali test stare alla larga? Sicuramente, da quelli complementari, alternativi e non provati con metodi riconosciuti dalla medicina ufficiale che le principali società scientifiche di allergologia (Siaaic, Aaito e Siaip), insieme alla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), etichettano come privi di credibilità e validità clinica.
►Test del capello. Dovrebbe verificare le sostanze chimiche presenti nel capello per stabilire lo stato di salute del soggetto e le eventuali anomalie nel metabolismo degli elementi minerali. In base ai risultati, vengono poi consigliate variazioni della dieta e l’assunzione di integratori alimentari o vitamine.
►Vega test. Basato sui principi della bioenergetica, secondo cui il corpo sarebbe un insieme di campi magnetici sui quali determinate sostanze possono influire, si effettua con un apparecchio munito di due elettrodi: uno è posto sulla mano del paziente, l’altro è collegato a uno strumento con cui l’operatore misura le differenze di potenziale elettrico in particolari punti della pelle, inserendo all’interno fiale con sostanze alimentari omeopatizzate, cioè diluite in modo infinitesimale.
►Dria test. Da seduti, si tratta di compiere un particolare e modesto sforzo muscolare con un braccio (o talvolta una gamba), che viene legato con una cinghia, collegata al computer. Durante lo sforzo, vengono poste sotto la lingua alcune soluzioni – che contengono i principali alimenti, dal latte alla farina, dall’uovo ai grassi idrogenati – e si valutano le eventuali variazioni della forza, dovute a un’ipersensibilità nei confronti del cibo in questione.
►Test citotossico. Consiste in un semplice prelievo di sangue, a seguito del quale viene valutata al microscopio l’integrità della membrana dei globuli bianchi messi a contatto con gli alimenti sospetti, opportunamente preparati.
►Test del riflesso auricolo-cardiaco. Ogni alimento indagato viene posto a un centimetro dalla cute – in prossimità di determinate zone del padiglione auricolare, individuate dall’agopuntura – per poi misurare le variazioni della frequenza cardiaca.
►Dosaggio delle IgG (metodica Elisa). Attraverso un prelievo capillare, il sangue viene messo a contatto con le proteine di un particolare alimento alla ricerca di alcuni anticorpi (le IgG) che possono reagire alla sua presenza.
«In commercio, esistono anche altri esami alternativi, come l’Alcat test, l’elettroagopuntura secondo Voll, la provocazione-neutralizzazione o l’iridologia, che purtroppo contribuiscono alla proliferazione di false diagnosi», evidenzia la dottoressa Paolini. «Così, si rischia di risultare intolleranti a cibi che in realtà sono innocui, sbilanciando di conseguenza la dieta e sviluppando malnutrizioni anche pericolose, senza peraltro risolvere la sintomatologia che ha portato il soggetto a sottoporsi al test».
EFFETTO PLACEBO
Eppure, dopo aver eliminato alcuni alimenti dalla propria tavola, molte persone affermano di sentirsi meglio, anche se probabilmente gli esami ufficiali non avrebbero mai confermato il problema. Realtà o effetto placebo?
«Si tratta di una conseguenza normale, ma temporanea», illustra la dottoressa Paola Minale, esperta di allergie e intolleranze alimentari per l’Associazione allergologi immunologi territoriali e ospedalieri (www.aaito.it). «Per quanto inadeguata o imperfetta, qualsiasi dieta apporta un beneficio iniziale per il semplice fatto che riduce l’apporto di sostanze come i “fodmap”, ovvero molecole e composti contenuti in diversi alimenti scarsamente assorbibili e facilmente fermentabili, bloccando così il meteorismo e la sensazione di gonfiore. Infatti, al di là della veridicità del responso, i test per le intolleranze eliminano quasi sempre farinacei, latticini, zuccheri, carboidrati e altri alimenti il cui eccesso non è salutare e peggiora la sindrome del colon irritabile e altri disturbi più o meno gravi».
In altre parole, il beneficio sull’organismo c’è e si sente, ma alla fine si esaurisce perché il regime proposto non è mirato e neppure equilibrato, ma semplicemente risolve per qualche tempo un’alimentazione scorretta.
«Bisogna tenere conto però che, quando si toglie un nutriente dalla dieta, viene alterata anche la flora microbica intestinale, provocando danni spesso duraturi», ricorda la dottoressa Minale. «Ovviamente, il pericolo vale anche al contrario, ovvero se allergie o intolleranze non vengono riconosciute, perché i danni possono essere gravi: nel caso della celiachia, ad esempio, la presenza di un’infiammazione persistente, anche di minima entità, può favorire lo sviluppo di alcune patologie croniche e addirittura tumori».
Per non parlare delle reazioni allergiche gravi agli alimenti che, seppure in rari casi, possono richiedere il ricorso al Pronto soccorso perché si manifestano con quadri clinici pericolosi per la vita, come lo shock anafilattico, da trattare con farmaci salvavita come l’adrenalina.
«Insomma, nessun sintomo va mai sottovalutato, a qualsiasi età», conclude l’esperta. «Allergie e intolleranze hanno certamente una predisposizione genetica, ma a scatenarle possono essere lo stile di vita, la maggiore esposizione a una sostanza o magari periodi delicati, come la menopausa e il post-gravidanza. In caso di sospetto, vale la pena sottoporsi a un controllo accurato».
QUATTRO COSE DA SAPERE
Professionalità, serietà e competenza sono le caratteristiche indispensabili di chi deve riconoscere la reazione avversa a un alimento. A dimostrarle sono alcune buone pratiche che gli allergologi (in sinergia con dietologi e gastroenterologi) devono garantire, e precisamente:
►una diagnosi eziologica, ossia l’individuazione degli alimenti responsabili delle reazioni attraverso test affidabili;
►l’indicazione di una dieta corretta, anche da un punto di vista nutrizionale;
►la stesura di consigli comportamentali, come (in alcuni casi specifici) evitare l’attività fisica o l’assunzione di antinfiammatori nelle due-quattro ore che precedono o seguono i pasti;
►prescrizioni terapeutiche da adottare in caso di emergenza, con le relative istruzioni per l’uso.
Esistono farmaci (antistaminici, cortisonici, broncodilatatori) da utilizzare per gestire i sintomi di lieve entità, mentre l’adrenalina va usata solo in caso di anafilassi