Oggi, nella Terra delle aquile, tutti conoscono “Mrizi i Zanave” e a tavola da Altin si incontrano ministri e vip. In un anno i coperti sono 60 mila, 30 le persone che vi lavorano direttamente, mentre 300 famiglie di contadini della zona riforniscono il ristorante.
Chi va a raccogliere melograni selvatici e frutti di bosco, 50 i pastori che garantiscono tremila capre e agnelli, altri allevano maialini e galline. Il tutto tra le vigne di Kallmet, l’antico vitigno locale.
Uno dei piatti che si servono nel ristorante di Altin Prenga. In copertina: un primo piano dello chef.
Il successo di Altin nasce dai saperi appresi in Italia e reinterpretati nella campagna albanese in cui è nato. «La tradizione non è altro che un’innovazione ben riuscita», gli ha detto una volta il suo maestro Carlin Petrini.
Quando nel 1998 è partito con il barcone per l’Italia, l’allora quindicenne mai avrebbe pensato che anni dopo sarebbe stato invitato all’Expo di Milano come ospite internazionale. Ricorda il giorno in cui ha deciso di partire: si trovava non lontano da casa, vicino al bunker ancora oggi visibile all’ingresso del ristorante. Sì, perché durante i 40 anni della dittatura comunista di Enver Hoxha ne vennero costruiti 700 mila in tutto il Paese, uno ogni quattro abitanti, per indurre nella popolazione la paura del nemico esterno.
Racconta Altin: «Un mio compagno di scuola, passando in macchina con suo fratello maggiore, mi ha urlato se volevo andare in Italia. Lui sapeva che stavo cercando un modo per emigrare». Subito corre a dirlo a casa: «Mia madre piangeva, mentre io mi sono preparato in un’ora e ridevo facendo il coraggioso. Appena ho girato le spalle alla mamma, però, le labbra mi tremavano in un misto di dolore, gioia ed emozione». Del peschereccio su cui è salito insieme ad altre 150 persone ricorda sensazioni disgustose: «La puzza del gasolio e quella del vomito: non c’era il bagno, a malapena trovavi il posto dove sederti ed era obbligatorio rimanere sottocoperta, perché altrimenti avrebbero scoperto che l’imbarcazione non si dedicava alla pesca. Nelle ultime ore, il mare era mosso e ci si vomitava addosso l’un l’altro».
Altin e il fratello Anton Prenga.
Quindi l’arrivo a Bari, ma puntando subito a nord. Il padre di Altin lavorava già in un ristorante della Val Rendena, in Trentino, e poco dopo li raggiunse anche l’altro figlio Anton. Il quindicenne, tecnicamente, era ancora un “clandestino”: «Cominciai come lavapiatti», racconta, «in un ristorante stellato». Tra i ricordi della Val Rendena, c’è una festa: «Mi fermavo spesso a pranzo da Rudi, collega di lavoro e amico, perché altrimenti avrei dovuto fare vari chilometri in bicicletta per tornare nel paese in cui abitavo. Quando compii diciotto anni, sua madre Luigia, una bidella che amava i ragazzi, mi preparò una torta. Spegnendo le candeline, mi commossi pensando alla mamma in Albania ma anche all’accoglienza che la famiglia di Rudi stava dando a me, uno “straniero”». Ancora oggi, Altin conserva in camera sua una foto di quel giorno.
Al ristorante stellato seguirono altre esperienze: un piccolo salumificio specializzato in salse, un caseificio di montagna, nuovamente alta cucina sul Lago di Garda. Una delle ultime fu un’azienda vinicola in Piemonte: «Ho capito che la nostalgia dei sapori della mia bisnonna aveva un nome, Slow Food».
In questa e nella foto successiva: altre creazioni di Altin Prenga.
Nel 2009 la scelta di “riemigrare” a Blinisht. Insieme al fratello Anton e alla consulenza del padre (ora tornato a Campiglio), apre “Mrizi i Zanave” (“L’ombra delle fate”), dal titolo di un’opera di Gjergj Fishta, il francescano che è considerato il più importante poeta albanese. «Allude allo spiazzo ombreggiato vicino al ruscello in cui riposa il pastore», spiega Altin mentre sullo sfondo si sente un gallo e il cellulare continua a suonare per clienti che vogliono prenotare.
All’inizio non è stato facile: «Eravamo quasi stranieri, non capivamo come funzionava, dalla burocrazia all’assenza di controlli sulla qualità. Al macello ogni carne diventava uguale, non importava come fosse stato allevato l’animale». Nei grandi hotel, invece, si apprezzava solo ciò che era importato dall’estero. «Il frutto che tutti compravano erano la banana, perché di chiara provenienza straniera». Quando però Altin ha risposto con il tradizionale succo di melograno, con la composta di corniole e i vini albanesi di qualità, il mercato ha premiato lui e gli altri chef protagonisti di questa “rivoluzione culinaria”. A breve, Slow Food dovrebbe rilasciare le prime due certificazioni a cibi albanesi: la mishavina, un formaggio di montagna conservato per mesi in botti di legno, e il gilko, una mostarda di fichi selvatici e noci verdi.
Eccetto caffè e zucchero, a Blinisht si produce tutto a chilometro zero, senza inquinare e rispettando la natura. Le verdure sono ovviamente di stagione: tra rape rosse, carotine e ortiche, il pezzo forte sono gli asparagi selvatici, raccolti da tre ragazzi all’uscita da scuola. Lo sforzo è anche quello di organizzare i contadini: «Seguendo il modello italiano», dice Altin, «stiamo promuovendo un consorzio tra i produttori, in modo da affrontare insieme problemi come le malattie delle greggi e acquistare taniche in acciaio inox per raccogliere il latte».
Per Altin, riscoprire la cucina vuol dire aprire una riflessione sulla storia dell’Albania: «Abbiamo dovuto sopravvivere a due tsunami. Gli oltre 40 anni della dittatura comunista hanno omologato anche i gusti degli albanesi, basta vedere il pane e il formaggio: ci si è abituati ad averlo bianco, quadrato e uguale ma, intervistando gli anziani a casa, si riscoprono i vecchi sapori. Poi, negli anni Novanta e ancora oggi, è venuto il consumismo violento: la zuppa di fagioli mangiata insieme a una bibita energetica».
“Mrizi i Zanave” sorge accanto a uno dei campi di lavoro forzato del regime (erano 31 nel 1991, secondo Amnesty International). «L’Albania», racconta Altin, «era l’unico Paese europeo che aveva dichiarato l’ateismo di Stato. Si festeggiavano di nascosto le feste religiose; alla mattina di Pasqua era usanza mangiare pane caldo con farina benedetta, formaggio e aglio fresco di primavera. Quando uscivi di casa, dovevi lavarti molto bene la bocca: bastava che una persona, sentendo l’alito, facesse la spia per finire in carcere».
Lui ricorda la “fede resistente” della nonna: «Per ricevere l’Eucarestia, invitava un prete in casa in gran segreto, perché il sacerdote rischiava la vita». Sempre la nonna evoca un ricordo legato a quelle tradizioni culinarie che oggi il nipote cerca di riscoprire: «Possedeva un maiale che teneva nascosto in una fossa coperta di fogliame. Era una proprietà privata, quindi vietata. Se fosse stata scoperta, sarebbe stata condannata ad anni di lavoro forzato». Eppure non rinunciava a mangiare quella carne: non potendo essiccarla all’aperto, la metteva a pezzi sotto sale e l’affumicava vicino al camino. «Il risultato», spiega, «non era diverso dallo speck dell’Alto Adige».