Si affacciano nuove speranze, che dovranno essere confermate da approfonditi studi scientifici, per i malati del morbo di Alzheimer, la cosiddetta demenza senile, e soprattutto per le loro famiglie, quasi sempre sconvolte per anni da questa terribile patologia degenerativa. Due recenti ricerche nate in ambito universitario lasciano intendere che si possa essere vicini a una svolta nelle cure. Dai laboratori statunitensi della Duke University, per esempio, rimbalza la notizia di uno studio che avrebbe permesso (il condizionale è d'obbligo visto il carico di dolore, anche relazionale, che si porta dietro questa malattia, circa 500 mila casi in Italia) di scoprire le cause del morbo di Alzheimer. Secondo i ricercatori americani, l’insorgere della patologia coincide con un comportamento anomalo delle cellule del sistema immunitario del cervello, le microglia, e in conseguenza di tale comportamento anomalo queste cellule consumano dosi abnormi di un aminoacido, l’arginina. Dopo questo consumo eccessivo, le cellule della microglia iniziano a dividersi e subiscono una modificazione.
Per bloccare questo processo, gli scienziati della Duke University hanno somministrato ai topi di laboratorio alcune dosi di una molecola in grado di ridurre l’attività enzimatica, la difluorometilornitina. L’esito di questi test rivela una riduzione del consumo di arginina da parte delle cellule nel sistema immunitario del cervello e anche una decrescita della produzione di placche amiloidi, le principali responsabili del morbo di dell’Alzheimer. Carol Colton, co-autrice dello studio pubblicato sul Journal of Neuroscience, spiega: «Se sarà accertato anche negli uomini che il consumo di arginina gioca un ruolo così importante nel processo degenerativo, forse potremmo bloccarlo ed invertire il corso della malattia».
E una nuova, potenziale, cura contro la demenza senile potrebbe arrivare anche da piccoli stimoli elettrici diretti al cervello, che inducono la nascita di nuovi neuroni. È questa la prospettiva offerta da uno studio condotto da Ajai Vyas dell'università tecnologica Nanyang, a Singapore, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista eLife. La stimolazione profonda del cervello mediante impulsi elettrici è già utilizzata nel Parkinson e in altre condizioni neurologiche. «Si tratta di una proposta interessante ma ancora del tutto preliminare e da verificare con nuovi esperimenti - commenta Patrizia Mecocci, Ordinario di Gerontologia e Geriatria preso l'Università di Perugia e membro della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria(SIGG) -, esperimenti i cui risultati siano pubblicati anche su riviste più importanti di eLife».
In ogni caso vi sono non pochi ostacoli per l'utilizzo della stimolazione profonda del cervello nella cura dell' Alzheimer: «Intanto - spiega ancora uno dei ricercatori - uno dei problemi gravi nelle demenze è che pur essendo presenti cellule staminali neurali nel cervello dei pazienti, queste non sono facilmente attivabili per la generazione di nuovi neuroni, perché sono comunque "vecchie"». Inoltre, a differenza del Parkinson dove l'area neurale interessata è, almeno all'inizio della malattia, molto localizzata e quindi "bersagliabili" con la stimolazione elettrica, la stimolazione profonda nell'Alzheimer è più difficile perché i danni neurali non sono circoscritti a piccole aree del cervello e poi interessano strutture neurali molto profonde e poco raggiungibili con questo tipo di stimolazione.
Gli sperimentatori hanno stimolato la corteccia prefrontale di topi con piccoli impulsi di corrente, impiantando nel cervello degli animali degli elettrodi: questa stimolazione ha prodotto un miglioramento della memoria dei topi e la formazione di nuovi neuroni in un'area neurale importante per apprendimento e memoria, l'ippocampo. Maggiore era il numero di nuovi neuroni nell'ippocampo, più consistenti risultavano i miglioramenti della memoria degli animali.