«Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello», recita l'incipit di un'antica preghiera pasquale utilizzata ancora oggi nella liturgia cattolica. È quello che mette in scena Amen, lo spettacolo, diretto da Valter Malosti, che segna il debutto nella drammaturgia dello psicanalista Massimo Recalcati in cartellone al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 17 ottobre.
Il testo prende le mosse da un dato autobiografico: Recalcati, nato prematuro, racconta di aver ricevuto insieme battesimo ed estrema unzione. Un punto di partenza intrigante e drammatico. Qui inizia la battaglia interpretata da tre figure: la Madre (Federica Fracassi, superlativa), il Figlio Enne2 (Marco Foschi), il Soldato (Danilo Nigrelli) accompagnati dalla chitarra elettrica di Paolo Spaccamonti e dai suoni elettronici di Gup Alcaro che creano un contrappunto ritmico lugubre e ossessivo al flusso di parole dei tre personaggi, autentiche figure beckettiane che emergono dal buio del palcoscenico.
La Madre, nel cui nome e grembo s'inaugura la vita, incarna la testardaggine della speranza contro ogni speranza attraverso il contrasto, violentissimo, tra la sfiducia fredda, cinica e distaccata dei medici che dicono che il figlio non sopravviverà e il possibilismo della fede che chiama invece alla battaglia perché la morte non sia l'ultima parola. Un vissuto rappresentato dal coraggio del Soldato, nato dalle suggestioni di Elio Vittorini e soprattutto del Sergente della neve di Mario Rigoni Stern, un libro fondamentale per l'adolescente Recalcati come spiega lui stesso nel video che introduce lo spettacolo.
Il passo del soldato che avanza nel freddo e non può fermarsi scandisce il ritmo del respiro fragilissimo del bimbo “mucchietto di ossa” e trafitto da cannule e aghi rinchiuso nella scatola di vetro. È la nuda vita che avanza passo dopo passo e resiste alla tentazione di lasciarsi cadere nella neve. È la nuda vita del neonato che nulla potrebbe senza l'amore della madre mentre il padre è assente e forse neanche crede alla possibilità di sopravvivenza del figlio. È la nuda vita del Soldato destinato a soccombere nella steppa russa se non fosse per il calore delle lettere della donna amata che gli ridestano gli odori di casa e la certezza che alla fine di quest'assurda prova c'è qualcuno ad aspettarlo.
I monologhi della Madre e del Figlio sono urla lancinanti di dolore simili a quelle di Giobbe che al culmine della sua sofferenza descrive il toccarsi degli estremi, la nascita e la morte: «Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò» e a quelle di Aldo Moro che in una delle ultime lettere dalla prigionia, prima di morire, scrive alla moglie Eleonora: «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Tra i tre si differenzia il Soldato che dialoga di più, anche attraverso la postura fisica, con lo spettatore.
Amen è la parola che suggella ogni preghiera cristiana. Non vuol dire “così sia”, espressione di un fatalismo remissivo e quasi vile, ma “fondarsi su”. Deriva dal verbo “aman” che significa “fare stabile, rendere sicuro, rendere fermo” da cui deriva il senso finale di “prestar fede, credere”. In questo senso è la parola che cuce le due frontiere, l'alba e il tramonto, la possibilità della vita, e di una vita piena di senso grazie all'amore dell'altro, e l'ineluttabilità della fine.
I rabbini ebrei insegnavano che quando non hai assolutamente tempo per pregare, come prescrive la Legge, basta pronunciare la parola “Amen” che racchiude tutta la preghiera e la fede.
La preghiera laica di Recalcati, scritta nel periodo del Covid quando «la morte era dappertutto», come ha detto l'autore, ci riconcilia con quest'antica lezione e ci ricorda che senza l'amore e la relazione con l'altro la vita è solo vuoto a perdere, un'impostura del tempo.