Il giornalista argentino José Luis Tagliaferro (foto di Mario Llorca).
(Foto Reuters. Qui sopra: una mensa per i poveri a Buenos Aires. In copertina: manifestanti cileni che alzano le mani davanti ai militari durante le proteste a Santiago, dove è stato imposto il coprifuoco).
L'Argentina si avvicina al voto per le elezioni presidenziali e politiche, domenica 27 ottobre, sull'orlo del collasso, dilaniata da una crisi economica che ha ridotto il Paese alla fame. L'inflazione alle stelle ha fatto impazzire i prezzi dei beni alimentari, che cambiani ogni giorno. Le tasche dei cittadini si sono svuotate. Secondo le ultime statistiche, un argentino su tre vive sotto la soglia di povertà, almeno tre milioni di (su una popolazione di 44 milioni di abitanti) sono in stato di indigenza. Lo scorso settembre il Governo ha decretato lo stato di emergenza alimentare. I sondaggi indicano che il Centrosinistra - il candidato Alberto Fernández in tandem con Cristina Fernández de Kirchner, l'ex capo di Stato in lizza come vice - scalzerà il conservatore e neoliberista Mauricio Macri, attuale presidente, che si candida per un secondo mandato.
Intanto il Cile, attraversato da vaste proteste scatenate dall'annuncio del rincaro dei trasporti pubblici, è piombato in una crisi profonda, in stato di emergenza e con il coprifuoco imposto a Santiago e in altre città come ai tempi della dittatura. E ancora, la rivolta popolare ha infiammato le strade dell'Ecuador, dopo la presentazione del paquetazo, la manovra economica del Governo che prevede, fra le altre cose, la liberalizzazione e l'aumento del costo del carburante. In questi giorni anche in Bolivia si è sollevato un movimento di protesta, in questo caso per ragioni politiche, ovvero dopo l'annuncio che Evo Morales, al potere da 13 anni, si sarebbe aggiudicato un nuovo mandato già al primo turno delle elezioni presidenziali.
L'America latina brucia, infuocata da movimenti di rivolta che, in vari modi e partendo da diversi scenari politici, chiedono maggiore giustizia sociale, lavoro, trasparenza politica, sviluppo, stabilità. «Il nostro è un continente segnato da sempre da crudeltà, sopraffazione, predominio dei caudillos (i leader autoritari) sul dialogo», commenta José Luis Tagliaferro, 73 anni, giornalista argentino, con origini calabresi, ed esperto di America latina. «Abbiamo una storia di violenza, che non è legata solo al colonialismo, ma è continuata anche dopo. Pensiamo agli indigeni: molte popolazioni native hanno finito per stare peggio dopo la decolonizzazione, quando si sono formati gli Stati indipendenti».
Tagliaferro riflette sul destino comune dell'America latina. «Ci sono alcuni fenomeni che attraversano e uniscono tutto il continente, che si ritrovano un po' in tutti i Paesi. Penso al protagonismo delle donne e alle lotte femminili per i diritti. E poi il movimento degli indigeni e dei campesinos per la terra, nato in Brasile. Altro elemento comune: la teologia della liberazione, che ha lasciato un'impronta e un'eredità forte nella Chiesa di papa Bergoglio. E, purtroppo, anche il fenomeno della violenza legata alle bande giovanili criminali, con la loro gestione del territorio, la loro musica e i loro riti».
Oppositore politico durante la dittatura di Videla (cominciata nel 1976), Tagliaferro ha lasciato Buenos Aires nel 1977, è approdato a Milano come esule politico. Dall'Italia non se ne più andato. Oltre a lavorare come giornalista, si è sempre impegnato in difesa dei diritti umani, per tre anni ha diretto il Cespi (Centro Studi Problemi Internazionali). Oggi si divide tra Italia, Uruguay e Argentina. Quando lo raggiungiamo al telefono, è in viaggio da Montevideo a Buenos Aires. «Sto andando alla commemorazione della scomparsa di mio cugino, desaparecido dal 24 ottobre di 42 anni fa», spiega. Nel 2015 Tagliaferro ha pubblicato Cielo libre. Immaginare la libertà, raccogliendo le poesie scritte dai detenuti politici: uno sguardo particolare sugli anni oscuri del regime.
Pensa al Cile dove le strade sono militarizzate come al tempo di Pinochet. E osserva: «In America latina oggi i Governi non hanno più bisogno di dittature militari. Oggi le armi sono secondarie, costa molto di meno comprare una televisione che un esercito, i giornalisti che un cacciabombardiere. La violenza e l'autoritarismo del potere si esercitano attraverso i mezzi di comunicazione asserviti. E' un cambiamento radicale e se non ci capisce questo non si capisce nulla dell'America latina. Quelle logiche militari contro le quali decenni fa io stesso ho combattutto oggi non esistono più. Dobbiamo lottare contro ciò che adesso è realtà».
E la realtà è la crisi economica, la povertà, la disoccupazione, l'ingiustizia sociale. «Tutti noi argentini abbiamo dei desaparecidos da commerare. Ma oggi i diritti umani per i quali combattere sono quelli di persone come mia cognata, anziana, diventata povera, che a casa sua ha dovuto chiudere il riscaldamento perché è diventato talmente caro da essere insostenibile, ha dovuto tagliere tutte le spese, non ha più soldi nemmeno per imbiancare, non può più permettersi l'aria condizionata in quelle poche settimane in cui a Buenos Aires ce n'è davvero bisogno. In Argentina si nasce peronista o anti-peronista. Io sono nato anti-peronista, però devo riconoscere che il Governo Kirchner aveva dato delle garanzie e protezioni sociali, aveva creato, fra le altre cose, un sistema sanitario efficiente. Tutto questo è stato distrutto da Mauricio Macri».
Si commuove nel pensare ai contadini, i campesinos che hanno perso il lavoro nelle campagne e che sono diventati i nuovi poveri, «gente saggia che conosceva, amava, rispettava la terra, i i cicli della natura. E che si è dovuta riversare nelle grandi città come Buenos Aires per cercare di sopravvivere, ai margini della società, senza più il rispetto dei figli. Ecco le dittature che oggi dobbiamo combattere, i diritti umani che dobbiamo difendere».