Parecchi buoni film, quest'anno, in gara per il Leone d'oro. Al giro di boa di metà rassegna, avvantaggiati dai favori della critica e del pubblico sono un titolo italiano (il teatrale Via Castellana Bandiera di Emma Dante), uno britannico (Philomena di Stephen Frears con la meravigliosa Judi Dench), uno giapponese (il capolavoro animato Si alza il vento di Hayao Miyazaki) e uno statunitense (l'asciutto e forte Parkland di Peter Landesman).
Anche se, come talvolta accade, la pellicola che ha raccolto più applausi e che ha conquistato tutti si è vista fuori concorso. Locke dell'inglese Steven Knight ha un solo interprete (il bravissimo Tom Hardy noto per aver fatto il cattivo Bane nell'ultimo Batman) e si svolge tutto in una notte, nell'abitacolo dell'auto con cui il protagonista fugge da una vita tranquilla per far fronte a una responsabilità che sente immanente: la nascita di un bimbo non previsto, non voluto, ma a cui non deve mancare l'amore.
Mentre la macchina fila veloce, le telefonate si susseguono: parole, brandelli di storie, voci amate e voci odiate. Il volto espressivo di Hardy tiene lo spettatore incollato allo schermo per novanta minuti.
In attesa di sapere se L'intrepido di Gianni Amelio confermerà le attese (e mentre The Zero Teorem di Terry Gilliam e Tom à la ferme del canadese Xavier Dolan, appena proiettati, hanno convinto solo a metà), c'è già un cineasta che si è assicurato un riconoscimento importante: all'israeliano Amos Gitai è andato il Premio Robert Bresson istituito dall'Ente dello Spettacolo.
Una sorta di Leone d'oro all'etica nella carriera, come ha ricordato al
momento della consegna monsignor Claudio Maria Celli, presidente del
Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali: “Il riconoscimento va
al regista che abbia dato testimonianza, significativa per sincerità e
intensità, del difficile cammino alla ricerca del significato spirituale
della nostra vita”.
E' ciò che Gitai fa da quarant'anni, spesso andando contro
corrente rispetto ai governanti di Israele (come dimostrano film quali
Kadosh, Kippur o Eden).
Anche oggi è a Venezia per presentare in
concorso una pellicola a suo modo rivoluzionaria: "Ana Arabia sono 81
minuti girati in una sola sequenza, senza tagli, in una bidonville tra
Haifa e Tel Aviv”, spiega. “E' la storia di una piccola comunità di
arabi ed ebrei, uomini e donne comuni, poveracci per i quali la
coesistenza non è certo idilliaca ma che riescono a vivere insieme,
parlando di sogni e di speranze comuni. Un'isola di pace immersa in
un'atmosfera di divisioni, di odi, di manipolazioni da parte dei media.
In un mondo dominato dal potere delle armi io credo nel potere delle
idee. Se noi ebrei non avessimo creduto nelle idee non avremmo saputo
salvarci. Ebrei e arabi che vivono insieme e si amano sono una bomba
potente contro le bombe che uccidono”.