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sabato 03 giugno 2023
 
lodi, un anno dopo
 

«Andiamo avanti per chi non c'è più»

20/02/2021  Siamo tornati nel Lodigiano, sui luoghi della prima zona rossa, un anno dopo. Le storie drammatiche di chi ha visto morire in pochi giorni i propri cari, la speranza, la voglia di ricominciare (di Eugenio Arcidiacono)

Tre ricordi. Stefano Paglia, primario del Pronto soccorso dell’ospedale di Lodi: «Nelle prime settimane c’era in molti di noi una specie di rassegnazione: lavoravamo pensando che prima o poi saremmo morti come i nostri pazienti». Sergio Bozzi, pensionato di Casalpusterlengo: «Mia moglie Angela era in bagno in attesa di ricevere la visita del nostro medico curante. Dalla cucina ho sentito un tonfo. Sono entrato e l’ho trovata a terra. Morta». Rosanna Riboli, benzinaia di Castiglione d’Adda: «Mio marito era un omone: non ha mai avuto problemi di salute. Il virus in quattro giorni me l’ha portato via. L’ho visto salire sull’ambulanza e poi mai più». Questa era la situazione nella bassa Lodigiana, il primo focolaio di Covid-19 nel mondo occidentale dopo la scoperta, il 20 febbraio del 2020 all’ospedale di Codogno, del “paziente 1”, il 38enne Mattia Maestri.

Un anno dopo siamo tornati in quei luoghi, iniziando dal distributore di benzina lungo la statale 234 di proprietà, dice Google, di “Francesco e Carlo Betti”. Due fratelli che però non ci sono più. Ad accoglierci troviamo Rosanna e Danilo, la moglie e il figlio di Francesco. Raccontano di due fratelli che da più di trent’anni lavoravano sempre insieme. Nella porta d’ingresso del gabbiotto hanno lasciato questa scritta: «Auguriamo buone feste a tutti i nostri clienti. F.lli Betti».

«Loro erano fatti così. Avevano sempre una parola buona per tutti», racconta Rosanna. «Mio marito a metà febbraio ha iniziato ad avere un po’ di febbre. Nessuno pensava al coronavirus perché il “paziente 1” non era stato ancora scoperto. Invece venerdì 21 febbraio è svenuto. Abbiamo chiamato l’ambulanza che l’ha portato all’ospedale di Melegnano dove il martedì è morto».

Nel frattempo, si era ammalato anche Carlo, che è stato ricoverato al Sacco di Milano, dove ha resistito fino al 21 marzo. I due fratelli sono morti così, in due ospedali diversi, senza avere più la possibilità di parlarsi. Nel gabbiotto ci sono una statuina e un’immaginetta della Madonna: «Eravamo entrambi molto devoti a Padre Pio. La preghiera mi aiuta tanto». Danilo, invece, la forza l’ha trovata nella musica. «Ho scritto una canzone, Potessi abbracciarti, che è stata selezionata per Sanremo Newtalent, un concorso canoro parallelo al Festival». Li salutiamo e ci spostiamo a Casalpusterlengo, dove abbiamo appuntamento al monumento ai caduti del Covid, costituito da sassi del Po. «L’idea ci è venuta durante il lockdown», spiega Ottorino Buttarelli, presidente dell’associazione Compagnia Casale Nostra. «La gente moriva, veniva messa nei sacchi neri e portata direttamente al cimitero, senza funerale. Un lutto collettivo che restava come una ferita aperta. Così abbiamo chiesto a chi voleva di portare un sasso qui, al Mortorino, il primo camposanto di Casale. Quasi tutti scrivevano qualcosa sulla loro pietra». Così ha fatto Mattia Cantarelli, che ha perso la mamma Alice, morta nella Rsa che la ospitava: «Ho scelto la pietra con molta cura, l’ho lavata e ho scritto sopra il nome di mia mamma. Solo quando l’ho posata qui ho capito che lei non c’era più. E sono scoppiato a piangere». Domenico Goi ha invece perso il fratello Stefano. «Era andato all’ospedale di Piacenza per fare una terapia dopo un intervento chirurgico. Lì si è infettato ed è morto dopo un mese. Con lui se ne sono andati tutti i miei amici. L’altro giorno guardavo la foto della squadra di calcio dove giocavo da ragazzo. L’unico vivo sono rimasto io».

L’ultima tappa del nostro viaggio è l’ospedale di Lodi, dove ci attende il dottor Paglia. Ci consente di visitare il suo reparto, a partire dalla “zona filtro” dove, uno alla volta, dobbiamo indossare i calzari, il camice, la mascherina Ffp2, la cuffia, i doppi guanti: materiali che andranno buttati in questo stesso punto prima di uscire. «Questa aerea è stata creata dopo la visita dei colleghi di Medici senza frontiere esperti nella gestione di epidemie», spiega. «Ci hanno detto che il rischio di contagiarsi è molto più elevato negli spazi comuni, quando mangiamo o quando ci cambiamo, che a contatto con i malati. Nelle prime settimane il 30% del personale sanitario si è contagiato, anche se per fortuna non abbiamo avuto nessun decesso».

La situazione è stata drammatica fin dal giorno della scoperta del “paziente 1”: «In poche ore sono arrivate più di 60 persone, molte delle quali in condizioni gravissime. È continuata così per tre settimane, finché ci siamo trasformati in un ospedale Covid». Tutti i protocolli erano saltati e il dottor Paglia, come altri colleghi, ha deciso di non tornare più a casa. «Dovevi continuamente distinguere nel minor tempo possibile i pazienti che andavano intubati, perché altrimenti sarebbero morti subito, da quelli che, pur gravi, potevano migliorare con l’ossigeno». Uno stress che all’esterno non veniva percepito. «Ogni sera videochiamavo mia moglie e le mie due figlie. Mi dicevano che dai Tg la situazione non sembrava così brutta. Mentre parlavano, ero accanto alla camera mortuaria e dovevo fare attenzione che il cellulare non riprendesse il via vai continuo delle barelle con i deceduti». È tornato a casa dopo un mese, «ma solo a giugno ho trovato la forza di togliermi la mascherina in loro presenza e abbracciarle». Stasera in pronto soccorso ci sono cinque persone positive al virus, nessuna per fortuna in gravi condizioni. Il dottor Paglia ci mostra i percorsi per separare subito i possibili casi Covid dagli altri pazienti e le bombole di ossigeno fissate a ogni parete. Poi ci accompagna all’uscita. Tornare a respirare a pieni polmoni all’aria aperta non è mai stato così bello. 

 
 
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