Non c’è pace senza giustizia, senza speranza, senza realismo. Senza perdono. Andrea Riccardi riparte da lì, dal titolo del Messaggio per il primo gennaio 2002, scritto da un Karol Wojtyla colpito dalla tragedia delle Torri Gemelle e dalle prime reazioni che cominciavano ad aggiungere lutti a lutti.
«I profeti, i Vangeli, i Papi: è già tutto detto. La guerra è la radice di ogni povertà, è la madre di tutte le ingiustizie. Purtroppo noi, come società, la stiamo riabilitando», scuote la testa.
Storico di professione, editorialista e scrittore (il suo ultimo libro è uscito da poco: Periferie, crisi e novità per la Chiesa, Jaca Book), Riccardi è un credente abituato a rimboccarsi le maniche, intrecciando preghiera e azione, solidarietà e denuncia, ideali e politica. «Dobbiamo ricominciare a guardare il mondo sognando. Le Scritture ci insegnano che non c’è nulla di più concreto che l’utopia. A certe condizioni, se si è docili allo Spirito, l’impossibile è possibile. Isaia parla di lance trasformate in vomeri, Osea assicura che il Signore eliminerà dal Paese archi e spade, Giona ottiene la conversione di Ninive, la città malvagia. L’esempio e le parole di Gesù Cristo, poi, sono un crescendo wagneriano al capitolo 25 di Matteo, la pagina del giudizio, che sancisce la sacramentalità del povero». «Pace non può attendere perché i poveri non possono più aspettare», insiste Riccardi.
«Il mondo la reclama. Noi cristiani possiamo aiutare a realizzarla. Nella sua pluriennale esperienza, la Comunità di Sant’Egidio ha scoperto una forza di pace: dallo stare tra gli emarginati a difficili pacificazioni, come quella avviata in Mozambico nel 1992 o come quella, recentissima, nella Repubblica Centrafricana. Pace e giustizia, insomma, sono cose troppo serie perché i cristiani non se ne occupino». I valori, immutabili, presuppongono linguaggi e metodi in continua evoluzione, adatti ai tempi. «I processi per vivere insieme, dialogare e integrarsi non si realizzano da soli. Purtroppo questi ultimi mesi ci consegnano un continuo fiorire di barriere».
Urgono antidoti. «Un rimedio possibile è quello dei corridoi umanitari per i profughi», spiega Riccardi. «Sono la risposta ai muri, frutto di fantasia evangelica e di perizia tecnica, capace di trarre il meglio da norme e cavilli, un intreccio che le Scritture sintetizzano con semplicità e “astuzia”, tanto caro a Paolo VI». In tema di pace e giustizia molti aggiornamenti li impone la storia.
«Nel 2007», riprende Riccardi, «s’è registrata una svolta. In quell’anno la popolazione delle città ha superato quella delle campagne. Il mondo globalizzato è un mondo prevalentemente urbano. Bisogna chiedersi: di quali città parliamo? Di quelle europee, arrivate fino a noi, in crisi, sì, ma mantenendo almeno un po’ grazia, identità e relazioni? No. Oggi dire città vuol dire sostanzialmente periferie, architettoniche ed esistenziali al tempo stesso».
L’argomento ha appassionato Riccardi. Le sue riflessioni sono diventate libro. Il volume contiene analisi e proposte. «Il tema delle periferie è tornato alla ribalta grazie alla predicazione di papa Francesco, ma per la Chiesa non è una novità. Anzi. Nel corso dei secoli, infatti, le periferie sono state luoghi di rigenerazione della Chiesa: pensiamo al monachesimo, alle “periferie umane” di san Francesco d’Assisi, o, più vicino a noi, ai preti operai nella Parigi del secondo dopoguerra, quella del cardinale Suhard, nella Torino del cardinale Pellegrino o nella Roma del cardinale Poletti». Le periferie sono anche provocazioni. Sfide. «Il vuoto di presenza sociale e di comunità che le caratterizza in molte parti del pianeta porta alla polverizzazione della giustizia e della pace. Le periferie sono terre di mafia, di soprusi, di violenza. La Chiesa deve ripensare la sua presenza e il suo annuncio. Ha ancora senso parlare di parrocchia legata al territorio? Come entrare in rapporto con uomini, donne e bambini costretti a vivere in condizioni disumane?».