Anna Maria Curcuruto è una sovrintendente della Compartimento della polizia postale di Reggio Calabria, qualche mese fa un suo intervento tenuto a un convegno in tema di bullismo era diventato virale. L’abbiamo raggiunta, a poche settimane dalla ripresa del progetto Cuori connessi, in un momento in cui i ragazzi fanno notizia per la difficoltà nel gestire il ritorno alla realtà dopo la vita virtuale durante la pandemia, per capire meglio quali sono gli errori più comuni che commettiamo come adulti, nel non saper prevenire dinamiche di bullismo e cyberbullismo.
In quell’intervento ci aveva colpito una sua frase forte: “Le chat dei genitori sono un’aberrazione”. C’è il rischio che il fenomeno del bullismo si amplifichi o addirittura nasca dall’intervento degli adulti?
«Assolutamente sì. Era un convegno che si era fatto nel contesto della premiazione di un concorso per studenti. Venivamo da una serie di incontri nelle scuole e da poco avevamo assistito a una storia sconcertante. A partire da una domanda per rompere il ghiaccio a un ragazzino che aveva una gamba rotta, abbiamo capito che la lite tra ragazzi era stata frutto di una chat tra mamme, iniziata con la richiesta di una piccola somma per fare un regalo e finita a insulti per la mamma che spiegava che non poteva permettersela perché il marito aveva perso il lavoro. Risultato: il figlio si è battuto con i compagni per difendere la madre».
Se neanche gli adulti sanno gestire i social e le dinamiche di gruppo, quanti danni fa l’ingresso in Rete a età sempre più precoci?
«Un telefono, che non viene più utilizzato per telefonare a casa come sognava di fare E.T. ma che può fare del male, non può essere dato a bambini a un’età in cui non sarebbero neppure in grado di telefonare a casa. Purtroppo però lo si fa sempre di più e il risultato è che li si espone a un mondo telematico sconosciuto più grande di loro, nel quale non sanno navigare neanche a vista. Basti pensare che durante la pandemia sono aumentati del 300% i casi di adescamento di bambini tra gli 8 e 12 anni».
Gli adulti quando non riescono a dire no alla richiesta del telefono da parte di un figlio piccolo “perché gli altri lo hanno” lo fanno perché non ne percepiscono a fondo la pericolosità o perché non hanno la forza di negoziare?
«Esiste sempre meno la negoziazione, io ricordo che quando le mie due figlie che oggi hanno 32 e 26 anni erano piccole o adolescenti i no erano condivisi con il padre e quando si diceva no lo si spiegava ma non si cambiava idea, non si cedeva. Il problema è che se dici no lo devi motivare, invece quando dici sì semplicemente ti togli il pensiero, non hai bisogno di investire del tempo per ragionare di sentimenti, di emozioni, di negoziazione, per far comprendere delle cose. Sempre più spesso i genitori ci raccontano che cedono per evitare “la guerra”. Perché ormai si abusa della parola guerra, utilizzandola per indicare qualsiasi piccolo conflitto quotidiano tra genitori e figli».
Capita così spesso che abbiano lo smartphone così presto?
«Se devo stare alla nostra percezione, direi che lo ha il 70%».
Ma quando si dà un telefono a 8-9 anni si percepisce il pericolo?
«Capita in gravi fatti di cronaca di sentire genitori che dicono: "ho dato il cellulare a mio figlio perché lo so maturo e responsabile". Ma a 8-9 anni si ha la maturità degli 8-9 anni. Se do a un bambino di quell’età la possibilità di autogestirsi, demando a lui una responsabilità che non gli appartiene e mi scarico dalla responsabilità della sua crescita. Il problema è che lasciare nelle mani del bambino uno smartphone, presuppone che sappia gestire anche le emozioni che gli arrivano attraverso questo mezzo, ma non è possibile. E infatti veniamo a sapere di bambini di 8 anni che dopo due anni di Covid vedono le immagini dell’Ucraina su Facebook e hanno gli attacchi di panico. Ma la domanda è che ci fanno i bambini a otto anni su Facebook?».
Sapendo che l’età minima è 14 anni, i figli ci vanno di nascosto dai genitori o sono i genitori che lo consentono?
«La nostra percezione è che i genitori sappiano in genere che il figlio ha un profilo Facebook, anzi spesso li aiutano a crearlo. E questo pone due ordini di problemi: il primo è che se autorizzi un bambino a mentire sull’età poi non sei credibile quando cerchi di insegnargli che non deve dire bugie, perché con i fatti gli hai già mandato il messaggio che mentire è lecito quando conviene. Il secondo è che a quel punto l’interlocutore che c’è di là pensa che tuo figlio o tua figlia di otto anni in realtà ne abbia 14 o 16 e, intenzionato bene o male, si relaziona con lui o con lei come si li avesse, con i risultati che possiamo immaginare. E infatti ci ritroviamo bambine di otto anni e mezzo “fidanzate” virtualmente con ragazzi di 24 che hanno gioco a dire:” ma io che ne sapevo, dichiarava 16 anni?”».
Manca la consapevolezza della pervasività del mezzo?
«In parte sì, spesso non ci si rende conto che una foto del figlio mandata a un profilo chiuso su Facebook, rilanciata su un altro profilo chiuso, diventa virale rapidamente. È quello che cerco di spiegare ai ragazzi quando suggerisco loro di fare attenzione all’immagine di sé che danno sul web perché a distanza di tempo potrebbero pentirsi di averla data e data in quel modo».
È difficile farlo capire?
«Sì perché nell’adolescenza si tende a vivere nel presente: non hanno una visione del futuro. Quando diciamo guarda che la tua immagine di adesso tra due o tre anni potrebbe finire in mano a un datore di lavoro che vorrebbe assumerti e vede che tu a 16 anni insultavi tutti, non riuscivi a gestire le tue emozioni, potrebbe non darti più quel lavoro da team leader: oggi la web reputation può pesare più di un curriculum».
Per la sua pervasività il bullismo quando diventa cyber è più distruttivo, perché si allarga la platea. Perché quando accade i ragazzi faticano tanto a chiedere aiuto?
«Il sentimento più diffuso online è l’odio, l’emozione più diffusa è la paura, lo stato psicologico più diffuso è la solitudine. Il 59% delle vittime di cyberbullismo pensa al suicidio, il 52% delle persone che stanno online è stato vittima di parole d’odio, di molestia, minaccia o diffamazione, se pensiamo che ci stanno 3 miliardi di utenti, sono numeri enormi. Sono fenomeni trasversali, non fanno distinzione tra adulti e ragazzi. Un bambino che a 9 anni ha avuto il telefono perché “è maturo e responsabile”, dopo farà fatica ad ammettere con un adulto di non essere stato all’altezza di gestirlo. Avrà paura di perdere l’investimento che il genitore ha avuto su di lui e che gli venga tolto il telefono e avrà paura di chiedere aiuto, amplificando il proprio senso di solitudine. Il paradosso è che tutti i bambini vengono accompagnati fino alla porta della scuola, ma poi la stessa paura dello sconosciuto in Rete i genitori non la hanno: eppure con il telefono si lascia un bambino a fare virtualmente il giro del mondo in compagnia di sconosciuti. In compenso ci capita sempre più spesso che ventenni e più vengano a chiederci consigli o a sporgere denuncia con papà e mamma».
Su tutto questo come si innesta il fenomeno del bullismo?
«Un ragazzo che non si è mai sentito dire no, spesso non sa affrontare il rifiuto: davanti al rifiuto che non ha imparato a elaborare può fare male a sé stesso o all’altro, si pensi ai casi di femminicidio, spesso nascono da contesti nei quali si è cresciuti non allenati a capire che quello che voglio io si può scontrare con quello che vuole l’altro. Nel cyberbullismo c’è una componente in più: non percepisco l’altro, perché non lo vedo e l’empatia diminuisce ulteriormente. Le dinamiche dell’algoritmo poi favoriscono schieramenti contrapposti e pensiero di gruppo, cosa che produce la dinamica del branco. In una situazione di bullismo, gli indifferenti assistono senza intervenire perché temono di diventare bersaglio: non per caso nelle nostre campagne per la prevenzione la frase che ripetiamo più spesso che “io sono l’altro”, perché bisogna far capire che la chiave di volta è disinnescare l’indifferenza, che l'altro la prossima volta potrei essere io, che la campana potrebbe suonare per me. Si tratta di imparare a mettersi nei panni nella vittima, di capire come ci si sente mentre gli altri stanno a guardare».