Indifferente o addirittura complice dei nazisti. Così la storiografia dei decenni passati ha delineato l’atteggiamento che Pio XII mantenne durante l’Olocausto. Studi più recenti hanno però evidenziato che la Storia non andò esattamente così. Ne parliamo con la storica Anna Foa.
Professoressa Foa, è corretto dire che Pio XII fu indifferente al dramma degli ebrei perseguitati dal regime nazi-fascista?
«No, non andò così. Recenti studi stanno mettendo in discussione il ruolo che la Chiesa ebbe nei confronti degli ebrei durante il nazismo. Rispetto alla storiografia degli anni Sessanta e Settanta si sono definite notizie e informazioni storiche chiare sul rifugio dato dalla Chiesa agli ebrei nel periodo che va dal settembre 1943 fino alla Liberazione, a Roma e in Italia: la Chiesa diede protezione a migliaia di perseguitati, dagli ebrei (5 mila i protetti nella sola Roma) ai soldati disertori che non aderirono alla Repubblica di Salò, ai membri del Comitato di liberazione nazionale. Le zone extraterritoriali di San Giovanni in Laterano (l’intero complesso del Laterano costituiva la zona più ampia tra le proprietà della Santa Sede, ndr) erano pieni di rifugiati, ebrei ma non solo».
Pio XII però non alzò mai la voce per chiedere che cessassero le persecuzioni nei confronti degli ebrei. È esatto?
«Su questo punto ci sono ancora posizioni storiografiche discordanti. Non ci sono documenti ufficiali in cui il Papa ordina di aprire i conventi e accogliere gli ebrei, è vero. Ma queste indicazioni non venivano date per iscritto: il regime nazista, ad esempio, non scrisse mica di far funzionare le camere a gas».
Ci fu mai una condanna formale del nazismo da parte di papa Pacelli?
«No, non ci fu. Il Papa usò un tono diplomatico, cauto, anche quando condannò il razzismo e disse che le porte delle chiese erano aperte per aiutare chi fosse stato in difficoltà».
Cosa giustifica il cambio di sguardo sull’operato del Papato?
«Non è pensabile che il Vaticano non fosse al corrente della protezione data agli ebrei. Pensiamo anche solo a tutto il cibo che veniva portato in tutte le istituzioni ecclesiali. Fu un lavoro avvallato dall’alto, pur senza senza direttive ufficiali. La protezione era sul filo del rasoio: gli stessi nazisti sapevano che la Chiesa dava rifugio agli ebrei, e quindi anche negli ambienti ecclesiastici lo sapevano. D’altra parte anche fra i diplomatici tedeschi c’erano posizione diverse e si cercava di mantenere un rapporto diplomatico con il Vaticano».
Alcuni ebrei furono nascosti anche in Vaticano?
«Sì, ma non moltissimi. Furono protetti anche alcuni partigiani. All’interno del Vaticano non tutti erano d’accordo sul violare la neutralità dello Stato Pontificio: accogliere perseguitati avrebbe significato, de facto, prendere posizione».
Quali furono i rapporti fra il Vaticano e gli altri Stati?
«Il Vaticano non riconobbe la Repubblica di Salò, collaboratrice dei nazisti, e fece sempre riferimento al governo del generale Pietro Badoglio. Inoltre durante l’occupazione tedesca Pio XII non uscì mai dal Vaticano, proprio a sottolineare che non risconosceva formalmente il governo della città».
Cosa ha fatto cambiare il corso degli studi?
«Sono stati analizzati documenti conservati nei conventi, inoltre un grande peso hanno avuto le memorie e le testimonianze dei salvati: tutti parlano di un sostegno diffuso e forte da parte delle istituzioni ecclesiastiche».
Quale storia, fra quelle in cui si è imbattuta nella sua ricerca, l’ha colpita maggiormente?
«Ci sono tantissime storie, come quelle degli ebrei nascosti nei sottotetti delle chiese romane, al quartiere Parioli o nella chiesa di Santa Maria ai Monti. E poi ebrei a San Paolo fuori le Mura e in tante istituzioni extraterritoriali (considerati edifici del Vaticano anche se fuori dallo Stato pontificio, ndr). Ricordiamo poi che a molti luoghi di culto vennero appesi cartelli di extraterritorialità: pur non essendo vero, i nazisti facevano finta di accettare, magari aspettando che uscisse qualcuno ma senza entrare. Era un ricatto per la Chiesa, quello di poter dire “volendo, possiamo arrestare subito tutti quelli che stai proteggendo”».
Fra chi diede protezione agli ebrei possiamo citare “nomi famosi” o si trattò di un’accoglienza portata avanti da sacerdoti e laici “sconosciuti”?
«Ci sono stati “nomi noti” come il cardinal Dalla Costa di Firenze, proclamato Giusto fra le nazioni nel 2012, e don Francesco Repetto, di Genova, anch’egli Giusto. A Milano il cardinal Schuster e così via... Ma poi fu importantissimo il ruolo dei parroci. Ricordo don Pietro Pappagallo, punto di riferimento per tanti perseguitati, assassinato poi alle Fosse Ardeatine il 23 marzo 1944. E ancora conventi e chiese che aprirono le porte a migliaia di ebrei salvando loro la vita».
Cosa cambiò nei rapporti fra cristiani e ebrei nei tempi duri della persecuzione?
«Gli ebrei a Roma erano abituati a convivere con i cristiani, come abitanti della stessa città. Durante le persecuzioni si avvicinarono anche al clero e alle suore, condividendo spazi e cibo gomito a gomito. Si parlarono, si raccontarono... in poche parole, si conobbero».
I rapporti intrecciati in quel periodo ebbero poi un’influenza sul dialogo ebraico-crostiano?
«Dopo la guerra tutto tornò come prima e la Chiesa non prese in mano la direzione del processo memoriale. Anzi, si tornò ai vecchi schemi antigiudaici. Ma io sono convinta che questo frequentarsi e poi chiedere notizie gli uni degli altri abbia contribuito ad abbattere muri e a conoscersi meglio gli uni gli altri».
Gli ebrei rimasero stupiti dall’aiuto offerto dalle realtà cattoliche?
«Più che chiedere aiuto ai cattolici, i perseguitati bussarono alle singole realtà: le reti di protezione nascevano per passaparola e conoscenza. Si andava bussando in cerca di protezione senza sapere come sarebbe andata. Teniamo presente che gli ebrei romani non furono aiutati nemmeno dalle istituzioni ebraiche fino al 16 ottobre 1943 (quando i paramilitari nazisti delle SS invasero il ghetto rastrellando 1.024 persone, ndr). Non ci si aspettava una protezione dalle istituzioni».
A quasi 15 anni dall’introduzione della Giornata della memoria, come valuta le commemoriazioni del 27 gennaio?
«Fino a tre-quattro anni fa avrei detto che la Giornata delle memoria si stava fossilizzando. Adesso mi sembra che ci siano delle voci fresche. Sicuramente le suggestioni della senatrice a vita Liliana Segre sono importantissime, soprattutto ora che riemergono il razzismo e il rifiuto dell’altro. Oggi si esalta la cattiveria e si considera la bontà come qualcosa di negativo. Io credo invece che ricordare quella che è stata la “grande frattura” della nostra cultura e della nostra società sia molto importante. Certo bisogna rivolgere al passato le domande dell’oggi: non perché tutto sia uguale, ma per capire dove si possono trovare somiglianze e differenze».
Ha senso paragonare l’indifferenza per la Shoah con l’indifferenza che aleggia oggi sul dramma delle migrazioni?
«Si tratta di realtà completamente diverse, ma l’indifferenza e il razzismo che hanno contrassegnato la Shoah e oggi il dramma delle emigrazioni si possono paragonare. Basti pensare che nel 1938 con la Conferenza di Evian (convocata nel luglio del 1938 per affrontare l’emergenza creata dalle leggi razziali in Germania, ndr) si sbarrarono le porte agli ebrei che, rimanendo in Germania, avrebbero rischiato la vita... Oggi dovremmo farci delle domande sulla chiusura delle frontiere».
Qual è il rapporto fra storia e memoria?
«Storia e memoria devono essere strettamente legate, l’emozione è importante ma senza la conoscenza non si può ricordare».
Qual è il livello di conoscenza storica degli italiani?
«Bassissimo. E devo dire che l’attenzione alla memoria non ha inciso sulla conoscenza. Non si può elaborare memoria senza studiare ciò che è successo: bisogna conoscere i fatti. Non facciamo memoria dei buoni sentimenti, ma di qualcosa che è accaduto. Nel caso della Shoah, una tragedia immane».