La voce al telefono di Anna Foglietta va e viene. «Sto andando a prendere i miei figli a scuola e c’è un vento terribile…». In sottofondo si sente la voce di un bambino. «Scusami, ma devo andare a riprendere mio figlio… Giuliooo!!!». Sembra di essere in una scena di La mafia uccide solo d’estate, la fortunata fiction tratta dall’omonimo film di Pif (qui voce narrante), di cui Rai 1 trasmette dal 26 aprile la seconda serie. L’attrice romana interpreta Pia, una donna tutta fuoco che nella Palermo a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 non ha un attimo di pace tra il marito, i due figli, il sogno di trovare un lavoro stabile come maestra e un fratello che frequenta brutte compagnie.
Alla fine della prima serie avevamo lasciato la famiglia Giammarresi in fuga verso il continente dopo che il piccolo Salvatore (alter ego di Pif) era stato testimone dell’omicidio di uno dei suoi migliori amici: il commissario Boris Giuliano. Ma all’ultimo momento la volontà di non arrendersi era stata più forte della paura e la famiglia aveva deciso di tornare a Palermo.
La nuova serie racconterà la guerra di mafia, e la conseguente risposta dello Stato, che insanguinò Palermo negli anni ’80. Quale sarà il picco drammatico della storia?
«Forse l’omicidio di Piersanti Mattarella, il fratello del presidente della Repubblica. Lui da democristiano presidente della Regione Sicilia era l’emblema della volontà di cambiamento, di rottura delle collusioni tra la politica e la mafia, e per questo fu ucciso in modo brutalissimo, sotto casa. Mentre giravamo quella scena mi sembrava di essere lì davvero, era come se quel torto, quelle ferite le sentissi ancora addosso».
Tornerà anche fra Giacinto, il religioso colluso con la mafia interpretato da Nino Frassica. Ma la Chiesa in Sicilia è stata anche don Puglisi...
«Certo, don Puglisi è stata una figura meravigliosa, ma non arriveremo a parlare di lui perché questa seconda serie si fermerà prima del suo assassinio. Comunque fra Giacinto è un personaggio grottesco, da commedia pura, molto divertente nella sua cattiveria e questa credo sia una delle chiavi del successo della serie tra i giovani: la demolizione di tutti i cliché mafiosi, che non vengono mostrati come superuomini, ma in tutta la loro grettezza».
Hai portato i tuoi tre figli sul set?
«Sì, l’anno scorso è stato più semplice perché mio figlio più grande, Lorenzo, non faceva ancora le elementari e quindi era più facile spostarsi. Quest’anno ci siamo fatti un weekend insieme io e lui e tra l’altro il set era un luogo bellissimo, la chiesa della Martorana nel centro storico di Palermo. Ha passato tutto il tempo a ripetere: “Motore!”, “Azione!”».
Ma cosa gli hai spiegato della fiction? Cosa sa della mafia?
«Forse sbaglio, ma penso che sia ancora piccolo e cerco di proteggerlo. Ci sono domande che aspetto che mi faccia lui. Forse gli farò vedere questa serie, magari solo il primo tempo perché poi deve andare a nanna, e gli spiegherò semplicemente che ci sono da una parte delle brave persone e dall’altra delle persone molto cattive. Un’altra delle cose belle di questa serie è che si presta a più piani di lettura, perché il protagonista è un ragazzino che vede le cose con la sua sensibilità e per questo penso la rende adatta anche ai bambini a casa. In generale, però cerco di non far vedere ai miei figli i miei lavori, perché non vorrei che in qualche modo possano sentirsi diversi dagli altri bambini. Per loro devo restare una mamma in carne e ossa, non una proiezione su uno schermo».
Dopo l’attacco con i gas del 4 aprile 2017 in Siria, hai promosso la campagna “Every child is my child” per aiutare i bambini che vivono lì. Un anno dopo da Douma sono arrivate immagini ancora più terribili di bambini vittime della guerra chimica. Non hai mai la sensazione che quest’impegno sia inutile?
«Sì, è terribile, ma è l’unica cosa che possiamo fare. Alla campagna di sensibilizzazione sono seguite delle azioni concrete che continuano tuttora. Con la nostra Onlus finanziamo per esempio la costruzione di una scuola e mi arrivano storie bellissime di bambini che non riuscivano nemmeno più a parlare a causa dei traumi che avevano subìto e che ora studiano insieme».
Per sostenere la campagna, tu e altri artisti avete anche pubblicato un libro di favole. Cosa racconta la tua?
«La storia nasce dai miei ricordi d’infanzia, quando d’estate con mio fratello giocavamo nella nostra casa in campagna: tra gli attrezzi e le biciclette e ci sentivamo dei supereroi. Da qui sono partita per immaginare l’incontro tra bambini che giocano sulla spiaggia di Lampedusa e altri piccoli come loro che sbarcano dopo mille sofferenze. La cosa che mi fa più male è quando di fronte a queste tragedie si reagisce con indifferenza o, peggio ancora, con un senso di fastidio. In questo modo insegniamo ai nostri figli che l’egoismo è un valore. Io non riesco ad abituarmi alle sofferenze degli altri: ci ho sempre creduto fin da bambina e da madre ci credo ancora di più».
(foto Ansa)