Anna Prouse è una sopravvissuta. Alla ferocia di una madre crudele. A un incidente al ginocchio che da adolescente le ha spezzato il sogno di diventare campionessa di tennis come la nonna paterna Rosetta Gagliardi che nel 1920 fu una delle prime atlete italiane a partecipare alle Olimpiadi di Anversa. A una fatwa (condanna a morte, ndr) di Muqtada al-Sadr, leader sciita di una delle più sanguinose milizie della guerra in Iraq. A un attentato a Baghdad con il suo autista che all’improvviso prende il kalashnikov e le spara contro uccidendo tutti i colleghi del suo team. A un tumore al cervello la cui diagnosi non le dava che pochi mesi di vita.
Milanese d’origine, laureata in Scienze politiche, poliglotta, giornalista (sia pure per pochi anni), esperta di ricostruzione in Paesi musulmani in cui predominano leggi tribali e uomini d’onore. E soprattutto, globetrotter. Era in Iran quando c’è stato l’attentato dell’11 settembre negli Stati Uniti. Poi, con la Croce Rossa internazionale, è andata in Iraq, dov’è rimasta dal 2003 al 2011, prima come responsabile dell’ospedale da campo di Baghdad, poi come consulente del governo iracheno fino alla promozione da parte del massimo comandante americano laggiù, il generale David Petraeus. Nel 2012 è andata Tripoli per prendere in mano le redini del “Tiger Team" libico, il gruppo di consulenti in vari settori creato dalla Caerus Associates nel Paese di Gheddafi subito dopo l’inizio della rivolta contro il raìs.
Ha raccontato la sua vita, più avventurosa d’un romanzo, prima a Pablo Trincia nel podcast Le guerre di Anna uscito nel 2020 e ora nel libro Della mia guerra, della mia pace (HarperCollins).
Cosa l’ha spinta a scriverlo?
«Quando mi è stato diagnosticato il tumore al cervello ho avuto molta paura perché i medici mi avevano detto che era finita. Nella mia vita sono sempre andata a cercare la morte in luoghi pericolosi, adesso era la morte che veniva da me. La mia dottoressa mi ha detto: “Fermati, rifletti su quello che hai vissuto e vedi se la tua esperienza può essere d’aiuto per gli altri”. E mi sono messa a scrivere».
Il titolo originario doveva essere Honorary man.
«Era l’appellativo che mi avevano affibbiato in Iraq quando, dopo l’esperienza con la Croce Rossa, nel 2006, il generale Petraeus in persona mi offrì di guidare il team di ricostruzione della provincia di Nassiriya. Sedevo a capotavola con generali, politici, uomini d’affari. Mi ascoltavano tutti, anche quando mi arrabbiavo e alzavo la voce. Un giorno chiesi il motivo e il capo della polizia di Nassiriya mi rispose: “Perché tu, dottora, sei un honorary man”. Si fidavano di me perché nonostante tutto ero rimasta in Iraq in un contesto pericolosissimo. Per loro, il coraggio è la virtù mascolina per eccellenza».
Non era cominciata bene quand’era arrivata.
«La mattina del 30 settembre 2003 stavamo andando con autista, traduttore e guardia del corpo, tutti iracheni, a Medical City, uno dei più grandi ospedali di Baghdad. Mentre stavamo parcheggiando, l’autista improvvisamente esce dalla vettura brandendo il kalashnikov. Pensavo volesse fermare il traffico, invece puntò l’arma verso la mia testa al lunotto posteriore e aprì il fuoco a raffica sparando trenta colpi. Un secondo prima ebbi un presentimento e mi gettai sul pavimento della vettura. I miei due accompagnatori morirono, io rimasi illesa».
Essere donna l’ha aiutata a trattare con generali e diplomatici?
«Paradossalmente sì. Se fossi stata un uomo certe cose non avrei mai potuto dirle. Il capo della polizia di Nassiriya mi chiamava regolarmente per chiedermi consiglio, una volta dissi al governatore: “Lei è impazzito, non può fare questo”. La femminilità disinnesca la competizione e io non vi ho mai rinunciato. In un mondo di militari e musulmani conservatori, non mi sono mai tagliato i capelli o coperto il capo. Quando mi presentavo al tavolo, mettevo i fiori di plastica nel giubbotto antiproiettile. Ho comprato delle ballerine dorate per non utilizzare i combat boots. Indossavo pantaloni, camicia bianca, foulard rosa. Ho messo pochissime volte la divisa militare. In trasferta anche i civili tendono a diventare dei rambo».
A sinistra, la copertina del libro. A destra, Anna Prouse, oggi 53 anni, durante una passeggiata in Iraq scortata dalle forze irachene
Però si era procurata una pistola da usare in un solo caso. Quale?
«Se fossi stata rapita, mi sarei uccisa. Dal 2004 al 2006 i rapimenti in Iraq erano all’ordine del giorno. Dopo aver visto la decapitazione di Nick Berg (imprenditore statunitense ucciso a Baghdad nel 2004, ndr) rimasi scioccata. Non era niente. Qualche mese dopo rapirono la volontaria irlandese Margaret Hassan, attivista dell'organizzazione umanitaria “Care international” che aveva dedicato tutta la sua vita a quella gente ed era sposata con un iracheno. Ebbi paura. “Se hanno rapito una donna così”, pensavo, “significa che non c’è speranza per nessuno”. E presi la pistola. Chiesi consiglio a un amico medico su quale parte del mio corpo potessi sparare per non morire subito. Speravo, sotto sotto, di essere soccorsa da qualcuno e salvarmi perché non ho mai avuto un istinto suicida».
Mi racconti della fatwa.
«Dopo sette anni ero diventata molto popolare tra la gente di Nassiriya. Avevo cominciato a far arrivare Ong italiane come "Smile Train" (Emergenza Sorriso) per operare i bambini che avevano il labbro leporino, una delle deformazioni più comuni, avevo creato il cinema mobile portando il proiettore in giro per i villaggi più sperduti, usavo la diplomazia sanitaria per far accedere alle cure più persone possibili perché i medici iracheni si rifiutavano spesso di operare, terrorizzati dalle vendette o dalle richieste di denaro. Gli iracheni e gli stranieri si odiavano perché non si conoscevano e non si incontravano mai. Io ero l’anello di congiunzione, il simbolo del mondo occidentale ai loro occhi».
Perché allora volevano ucciderla?
«Muqtada al-Sadr si era rifugiato in Iran e incitava i suoi connazionali a odiare lo straniero perché per i terroristi noi occidentali eravamo corruttori e approfittatori. Ammazzarmi direttamente sarebbe stato un boomerang perché ero diventata molto popolare. Allora mi lanciò una fatwa. A scoprirlo fu il capo della polizia, il generale Sabah Al-Fatlawi. Se l’avessi detto all’Italia, gli Stati Uniti avrebbero preso subito posizione, sarebbe scoppiato un caos e credo che mi avrebbero uccisa. Allora ho chiamato Al-Fatlawi e gli ho detto: “Ho dedicato sette anni della mia vita a questa gente, siete voi che dovete tirarmi fuori dai guai” sollecitandolo ad aprire un canale diplomatico tra musulmani che era il modo più efficace. Funzionò. Il generale andò in Iran e incontrò Qassem Soleimani (uomo chiave dell’intelligence militare iraniana e storico comandante delle Guardie iraniane della Rivoluzione morto in un raid a Baghdad nel 2020, ndr), l’unico che poteva influenzare al-Sadr. E alla fine lo convinse a togliere la fatwa».
Dall'alto in senso orario, Prouse da bambina, in Iraq con alcune donne e in udienza privata da papa Benedetto XVI
A Calcutta ha conosciuto anche Madre Teresa.
«Avevo 26 anni. Studiavo Scienze politiche a Milano e volli andare a fare il giro dell’India in autobus. La incontrai nel lebbrosario di Calcutta. Era energica, attiva, dava gli ordini con toni anche perentori. Non aveva nulla del santino che le è stato cucito addosso».
Cosa la colpì?
«In quel posto non c’erano medicinali, attrezzature sanitarie per alleviare la condizione dei malati che arrivavano. Madre Teresa diceva alle suore: “Sono moribondi, ridotti a brandelli, potete solo amarli e dargli quell’affetto che non hanno avuto in vita e che ora li può accompagnare verso la morte”».
In Iraq, tra tante disavventure, ha trovato l’amore.
«Nel 2004, durante una gita nel Kurdistan iracheno per festeggiare il capodanno persiano, ho conosciuto Matt, colonnello dei Marines e advisor del ministero delle Finanze iracheno. Ci siamo sposati nel 2012 e ora viviamo a Palo Alto, nella Silicon Valley».
Come si è salvata dal tumore?
«Tutti i medici mi davano per spacciata e io mi stavo preparando a morire. Poi è arrivata la chiamata del dottor Chan dello Stanford Hospital di Palo Alto che si era reso disponibile per fare un’intervento sperimentale. Avevo una palla da golf nel cervello in un posto dove era difficilissimo intervenire. Lui me l’ha tolta e sono guarita. Se fossi stata in un’altra parte del mondo probabilmente non sarei sopravvissuta».
Dai paesi in guerra alla Silicon Valley.
«Un luogo dove io c’entro come i cavoli a merenda. Chi lavora qui vive in una bolla, tutto si muove a velocità rapidissima e pensano che anche il resto del mondo funzioni così. Ho lavorato in Google per un progetto per i paesi africani e molti di questi ragazzi si presentavano dai capi di stato in bermuda e flip-flop. Gli dicevo che bisogna mettersi giacca e cravatta. E loro dicevano: “Noi qui siamo abituati a non essere giudicati per come ci vestiamo”. Ho dovuto avere più pazienza con loro che con i governi africani».
Cosa le è mancato nella sua vita?
«Un abbraccio o una carezza di mia madre Paulette, una donna dura e intransigente che si divertiva a umiliarmi e offendermi. Di me non le andava bene nulla, odiava persino i miei capelli ricci e voleva portarmi dal chirurgo per farmi levigare le guance. L’Iraq, al confronto dell’infanzia che ho vissuto con lei, è stata una passeggiata perché l’odio in un teatro di guerra te lo spieghi e te ne fai una ragione, l’odio e la ferocia di una madre sono qualcosa di incomprensibile. In guerra, paradossalmente, ho trovato la pace».
Qual è il vostro rapporto oggi?
«Nessuno dopo che lei ha chiuso con me dieci anni fa. È meglio che non ci sia nella mia vita anche se le voglio ancora bene».
Crede in Dio?
«Dopo tutto quello che mi è accaduto non potrei non credere».
Come vorrebbe essere ricordata?
«Come una persona coraggiosa, con i valori al posto giusto e che ha avuto sempre tempo per gli amici».
Si immagina un dopo?
«Credo nella reincarnazione ma spero di non dover incontrare di nuovo mia madre».