Lo Stato più giovane del mondo ha compiuto nel luglio scorso tre anni, festeggiati sotto lo slogan “South Sudan, one nation, one people”. Ma l'anniversario non è stato un'occasione di festa: il Sud Sudan, che è diventato indipendente dal Sudan il 9 luglio 2011, è da tempo nel caos.
Il conflitto, latente già da un anno e generato dalle rivalità tra il presidente Salva Kiir e l'ex vicepresidente Riek Machar, rappresentanti delle due etnie maggioritarie (dinka e nuer), si è scatenato lo scorso dicembre, causando migliaia di morti e un enorme numero di sfollati interni, che vivono in campi profughi spesso non attrezzati e inadeguati a fornire loro il minimo necessario.
È recente l'ultimo allarme, lanciato dal'International Crisis Group, che monitora costantemente tutte le aree di crisi nel mondo: «La guerra iniziata a dicembre nella capitale Juba e allargatasi ai tre stati di Jonglei, Upper Nile e Unity», si legge in un alert, «è a rischio di escalation, comprese maggiori atrocità e carestia. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in sessione d'emergenza, dovrebbe incaricare la missione Onu (Unmiss) di usare i suoi buoni uffici per prevenire violenze contro i civili e violazioni della cessazione delle ostilità; dovrebbe stabilire un embargo delle armi e delineare meglio i ruoli tra Unmiss e Ong sul posto».
Molte città e villaggi sono stati distrutti e saccheggiati. In copertina: il campo rifugiati di sudsudanesi ad Ajumani, in Uganda (©Unhcr - Noy).
La gente non è più disposta a farsi trascinare in un conflitto
Gli sfollati interni – secondo l'ultimo rapporto dell'Ocha – sono 1.300.000, 100 mila dei quali in dieci campi all'interno delle basi della Unmiss. A questi numeri già impressionanti, vanno sommati oltre 600 mila rifugiati nei Paesi confinanti, cui si aggiungono circa 1.500 persone ogni settimana che si riversano nei campi in Etiopia: numeri dell'Unhcr.
Sembrano passati secoli da quel 9 luglio del 2011, quando l'indipendenza veniva salutata con gioia ed enormi aspettative. «La situazione», spiega Elisabetta d'Agostino, rappresentante Paese del Ccm (Comitato di Collaborazione Medica di Torino) a Juba, «è estremamente critica per la popolazione e in particolare per gli sfollati. Noi lavoriamo in uno dei campi più grandi. Ci occupiamo di salute primaria in supporto alla sanità pubblica e constatiamo che molti non riescono a ottenere le cure necessarie per malaria, diarrea e altre patologie molto diffuse. Non molto tempo fa c'è stata anche una presunta epidemia di colera, che fortunatamente pare rientrata. Ma c'è un reale e urgente bisogno di fondi, la gente nei campi vive malissimo ed esiste un forte rischio fame, specie in alcune aree: qui di solito si coltiva tra marzo e maggio, prima dell'arrivo delle piogge, ma quest'anno, con la guerra, nessuno ha seminato».
«La maggior parte delle persone», sottolinea d'Agostino, «sono pastori con un reddito quasi inesistente, legato alle mandrie. Nelle aree dove lavoriamo noi, ci sono 100/120 mila sfollati che hanno perso tutto, animali compresi. La mia sensazione è che la gente sia molto stanca e avvilita, ma che proprio per questo non sia disposta a farsi trascinare in un conflitto civile. Salva Kiir e Riek Machar si portano dietro un manipolo di persone, ma la massa non li segue. Ho assistito personalmente a episodi tra la gente comune che me lo fanno pensare. Questo Paese avrebbe grandi risorse: il petrolio, l'acqua del Nilo... ma i benefici vanno tutti fuori, le poche entrate si perdono in corruzione».