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mercoledì 25 giugno 2025
 
 

Antonio Albanese: «Contromano, la mia favola sugli immigrati»

06/04/2018 

Dal terzo piano di un cinema nel cuore di Milano, Antonio Albanese osserva il chiostro della chiesa di Santa Maria Incoronata: «È magnifico. Non sapevo nemmeno che esistesse. La chiesa l’ho sempre vista da fuori». La scoperta di ciò che non si conosce: è intorno a questa idea che ruota Contromano, il film che segna il ritorno alla regia del comico dopo 15 anni.

Lo spunto di partenza è paradossale. Il protagonista Mario Cavallaro gestisce con sempre più fatica un negozio che vende calze pregiate e non ne può più di vedere tutti i giorni davanti alle sue vetrine Oba, un giovane senegalese che gli soffia i clienti vendendo pure lui calzini, ma a prezzi stracciati. Finché ha un’idea:  «Se tutti riportassero un migrante a casa, il problema sarebbe risolto»€. Detto fatto. Il negoziante rapisce il concorrente, lo carica in macchina e inizia un lungo viaggio verso l’Africa.

L’idea paradossale consente ancora una volta ad Albanese di dare prova delle sue eccezionali doti comiche, ma l’ambizione di fondo è molto seria: «Da spettatore mi sto stancando di vedere trattato il tema dell’immigrazione sempre con cupezza, con drammaticità. Per carità, è giusto, ma penso sia possibile anche un’altra strada. Ho cercato di raccontare con garbo, con leggerezza l’incontro tra due solitudini: quella di Mario, un uomo onesto, ma chiuso nel suo mondo e quella di Oba, che per sopravvivere vende il suo stesso prodotto, le calze, ma “in nero”€».

Specie all’inizio del film, più che un incontro si racconta uno scontro. La prima volta che si vedono, Oba dice: «Amico compra qualcosa, non ho venduto niente». E Mario: «Sapessi quante volte è capitato a me...»  

«Certo, perché la realtà è così. Oggettivamente Oba crea a Mario un disagio enorme vendendo i calzini proprio davanti al suo negozio. Ma, anche se in modo brusco, i due si incontrano e questo poi darà modo, con la chiave ironica che ho scelto, di conoscersi. Il problema è quando questo incontro non c’è, quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi€».

Mario è commovente quando rivendica la qualità del suo lavoro e dei suoi prodotti. Quando sente Oba dire che le calze che vende sono in “filo di Svezia” lo porta nel suo negozio, gli mostra le sue e gli spiega: “Si dice in filo di Scozia!”. Non è un peccato che di negozi come il suo e di persone come lui ce ne siano sempre meno?  

«È un disastro. Quando vado in una fattoria e vedo come fanno il formaggio o altri prodotti artigianali per i quali siamo famosi nel mondo, ho paura di non vederli più»€.

E non è colpa di Oba se il negozio di Mario va male?  

«Nell’immediato è chiaro che gli crea un danno. Ma se un’attività come la sua non funziona più la colpa è di un Occidente che non sa più difendere i suoi valori e la sua cultura. Infatti nel corso del film Oba capirà quanto amore c’è nel lavoro di Mario€».

Mario ha un negozio in centro a Milano e Oba, anche se gli ruba il lavoro, è un bravo ragazzo, simpatico, pure bello. Ma nelle zone degradate delle nostre città gli italiani che in massa hanno votato alle ultime elezioni per la Lega e per il Movimento 5 stelle non hanno questa percezione degli immigrati: li vedono spacciare, rubare e hanno paura che possano fare del male ai loro gli. Cosa ti senti di dire a loro?  

«Una parte delle forze che hanno vinto queste elezioni ha già governato questo Paese per più di dieci anni. Sono forse riusciti a fermare le migrazioni come avevano promesso? Assolutamente no. Quando si parla di muri e di respingimenti si alimenta la rabbia nell’immediato, ma non si risolve niente, perché stiamo parlando di un fenomeno epocale che va governato. Io sono molto orgoglioso di vivere in un Paese che, a differenza di altri che a parole si considerano più civili del nostro, in questi anni ha salvato migliaia di vite umane in mezzo al mare e poi le ha accolte. Non ci sono soluzioni facili, ma l’unica strada è la conoscenza reciproca, aggiunta alla valorizzazione delle loro risorse. Mentre giravamo questo film in Africa ho chiesto a un capo villaggio come mai avessero abbandonato una sterminata distesa di ulivi. Lui non mi capiva, perché non sapeva che se vanghi la terra e poti i rami, poi gli alberi rendono di più»€.

Quindi lo slogan “Aiutiamoli a casa loro” ha un fondo di verità?  

«Certo. Ho saputo che Slow food sta portando avanti un progetto proprio in questa direzione, finanziando centinaia di orti e insegnando alle famiglie come coltivarli»€.

I tuoi genitori sono emigrati in Lombardia dalla Sicilia. Cosa c’è in comune con le migrazioni di oggi?  

«Mio padre ha vissuto per un anno in un seminterrato, perché non si affittava ai meridionali, come oggi molti non afttano ai migranti. Ma per il resto sono due fenomeni totalmente differenti. Un siciliano come mio padre che si trasferiva in Brianza per fare il muratore ci metteva meno tempo a intendersi con i suoi compagni di lavoro di un giovane africano che non sa una parola d’italiano. Anche perché, da un punto di vista culturale, erano più le cose che univano che quelle che dividevano: per esempio ci si trovava tutti la domenica in chiesa. Ora abbiamo di fronte culture spesso molto diverse dalla nostra, pensiamo solo al rapporto tra uomo e donna nel mondo musulmano. Per questo, ripeto, è fondamentale la conoscenza reciproca»€.

Tra i tuoi personaggi teatrali, c’è il Ministro della Paura che aziona i suoi tre pulsanti giallo, arancione e rosso corrispondenti a tre livelli: “poca paura”, “abbastanza paura”, “paurissima”. Ora a che livello siamo?  

«Viviamo in un momento di grande allerta generale: se uno dà retta a ciò che si dice in Tv o sul Web sembra che incomba su di noi una tragedia universale. Eppure ho letto che il 2016 è stato l’anno con il minor numero di omicidi nella storia Italia: 397. Nel 1991 erano stati ben 1916. Di fronte a tutta questa esasperazione, ho sentito il bisogno di fare un film che avesse la dolcezza di una favola»€.

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