Abbiamo chiesto una riflessione al giudice Giuseppe Anzani,
Presidente emerito del Tribunale di Como e vicepresidente del
Movimento per la vita, in merito all’ipotesi di apertura del matrimonio
alle coppie omossessuali anche per quanto riguarda il nostro paese.
- Giudice Anzani, dopo la Francia è la volta del’Italia?
«Credo di no. Non solo riguardo alle ragioni della nostra storia, della
cultura e del costume, del modo di sentire radicato e motivato ma anche,
direttamente, per ragioni giuridiche. Nella Costituzione italiana sono
riconosciuti i “diritti della famiglia come società naturale”, e dunque
la famiglia - nel suo essere qual è secondo la sua natura - antecede le
definizioni giuridiche, anzi le detta essa stessa. E subito dopo il
riconoscimento, investe il matrimonio come “fondamento” di quella
famiglia che è stata riconosciuta, cioè ravvisata e recepita
nell’ordinamento. L’ordinamento, insomma, si pone come una “copia dal
vero”».
- Però non troviamo scritto “uomo e donna”, “maschio e femmina”.
Perché non ce ne era bisogno, essendo naturale nella mens legis il senso
del paradigma descritto come “società naturale”. Cerchiamo di essere
seri. I problemi delle coppie gay vanno anch’essi presi seriamente, ma
non storpiamo le cose. La Corte costituzionale, investita della
questione se “il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso”
contrasti con la Costituzione, ha detto chiaramente di no, con la
sentenza n. 138 del 2010. “Le unioni omosessuali non possono essere
ritenute omogenee al matrimonio“, ha scritto. Nessuna violazione
dell’uguaglianza, dunque, per vicende non paragonabili.
- Si richiamano però, a volte, le regole “europee”.
«Le regole dedicate alla famiglia, nell’Unione europea, stanno nella
cosiddetta “Carta di Nizza”, divenuta parte integrante del Trattato di
Lisbona. L’articolo 9 dice che “il diritto di sposarsi e il diritto di
costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne
disciplinano l’esercizio”. E’ dunque la legge nazionale che detta la
disciplina, e quella italiana è chiara, è semplice, naturale, e ha un
fermo presidio costituzionale. Anche rispetto alle norme CEDU non vi è
da noi nessuna distonia, di fronte all’art. 12 che dispone che “uomini e
donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una
famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale
diritto”. Proprio questi raffronti sono stati contemplati dalla nostra
Corte Costituzionale».
- Perché non copiare le norme di altri Paesi, che ammettono il matrimonio gay?
«Costruire uno “spazio giuridico uniforme” ha alcuni vantaggi, in senso
generico. Ma dipende dai contenuti: non è la stessa cosa uniformare la
giusta soluzione o uniformare l’errore. Questo impedisce non solo di
esplorare le risposte razionali al "perché questi sì e questi no", ma
anche di considerare che se il sì per alcuni fosse una smagliatura sul
piano dei valori, l’estensione sarebbe una dilatazione dell’errore. E
all’interno della ricerca della soluzione giusta, non è l’omogeneità in
sé a far giustizia ottusa (a ciascuno la stessa cosa) ma il
discernimento reale (a ciascuno il suo)».
- Ma le coppie gay, così, non restano discriminate?
«Non vanno discriminate. Restano differenti. Le differenze costituiscono
le ragioni assennate del diritto appropriato, coerente, in vista
dell’interesse giuridico e umano preminente. Se vi sono esigenze di
tutela di aspettative meritevoli, e di solito si parla di assistenza, di
diritto successorio, di vantaggi nel campo del welfare mentre più
raramente di limitazioni che su altri piani derivano da un regime
giuridico para-familiare, i problemi possono essere risolti alla stregua
del diritto civile comune, con opportuni accorgimenti. Il matrimonio
resta altra cosa».