Dopo il recente polverone sul Fertility Day, un’altra notizia riporta l’attenzione sul tema della natalità, con un approccio altrettanto controverso, legato alla Legge 40 e alle tecnologie di riproduzione assistita. Infatti anche a Milano apre una succursale di una società spagnola per la riproduzione assistita (ci rifiutiamo di citarne il nome, per non farle pubblicità), per facilitare l’accesso alla eterologa. E non lo fa per beneficienza, ma per fare affari, profitti, business. Questa è la drammatica verità: sulla pelle del bruciante desiderio di un figlio che non arriva.
In effetti, troppo poche infatti le “donatrici” italiane. come ricorda anche un accorato articolo su un sito di grande diffusione, che non può essere certo accusato di essere nemica della riproduzione assistita. Leggiamo con attenzione. “a due anni e mezzo dalla sentenza della Corte Costituzionale che cancella il divieto di fecondazione eterologa (ossia con ovuli o sperma esterni alla coppia), si contano solo venti donatrici italiane. Un numero inconsistente dovuto al fatto che la legge non ammette nessun rimborso spese per chi dona gli ovuli. E chi può accettare di sottoporsi a cure ormonali pesanti e entrare in sala operatoria solo per aiutare un’altra donna ad avere un figlio? La società spagnola XXX, (nel testo il nome dell’azienda è in chiaro, noi preferiamo oscurarlo) per dire, prevede un rimborso spese per le sue 1.300 donatrici, tra i 18 e i 30 anni, che va dai 600 ai mille euro”(Simona Ravizza, la 27a ora, 26 settembre 2016).
È evidente la trappola del linguaggio: si è parlato di donazione, cioè di azione gratuita, per il bene dell’altro, fatta senza alcun tornaconto, e insieme si sostiene che è impossibile che una donna accetti di farsi bombardare di ormoni solo per “aiutare un’altra donna ad avere un figlio”. E così, con la massima ipocrisia del politicamente corretto, si parla di “rimborso spese”.
Eppure tanti allarmi sollevati sul business della provetta in questi anni sono stati sempre trattati come tradizionalisti, oscurantisti, nemici del progresso – una “roba da cattolici”, insomma. Ma nella notizia è evidente che non si tratta di donazione, si tratta di “vendita mascherata”. Sempre la stessa autrice, in’altra pagina della stessa testata, un anno prima usava parole più precise, e parlava di “compenso” per la “donazione” di ovuli, superando allegramente il principio di non contraddizione (se c’è un compenso, non è donazione: o no?). Leggiamo ancora con attenzione: “Secondo i dati della Società europea di riproduzione la Spagna è il Paese nel quale si realizzano più donazioni, fatte soprattutto da studentesse per pagarsi l’università. «È un atto di solidarietà. Ma è permesso un compenso economico, per coprire le spese di mobilità, assenza dal lavoro, eccetera - si legge sempre online -. Noi riconosciamo 900 euro. Le donatrici di ovuli si assegnano in base anche alle caratteristiche fisiche della coppia ricevente». (Simona Ravizza, 6 febbraio 2015 Corriere-salute). Insomma, importiamo ovuli dall’estero, ottenuti “dietro compenso”, perché in Italia non c’è (ancora?) la possibilità di retribuire le donne disponibili.
Restano due domande conclusive, ancora più provocatorie.
La prima: al di fuori della logica del dono (quella, per capirci, per cui una persona si fa espiantare un rene, e lo fa a titolo totalmente gratuito, come prescrive la nostra legge) chi per 900 euro è disposto a rischiare la propria salute?
La seconda: in quale pagina di giornale si mette questo articolo? Nelle pagine della salute e del benessere delle persone, oppure in quelle di economia e finanza, come ulteriore esempio di una globalizzazione che pur di fare profitti calpesta qualunque valore?