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mercoledì 13 novembre 2024
 
 

Arena di Verona, Hollywood della lirica

29/06/2013  Il festival celebra cento anni di vita nel nome di Verdi, proponendo il "Nabucco", la "Traviata" e l'"Aida".

Inaugurato cent’anni or sono, il Festival dell’Arena di Verona è diventato un appuntamento operistico d’obbligo, irrinunciabile, non tanto per ciò che si vede e si sente, quanto per l’atmosfera che si vive: un caleidoscopio di sensazioni, d’immagini, di colori, che rendono l’anfiteatro veronese il centro di un fenomeno di massa irripetibile nelle sue offerte, nelle sue dimensioni, nei suoi risultati.

L’edizione 2013 è iniziata nel nome di Verdi, a rammentare la forza di quell’anniversario. C’era Nabucco (15 edizioni dal 1989, a conferma di una sua accresciuta popolarità presso il pubblico internazionale), con il vecchio ma funzionale allestimento di Rinaldo Olivieri per la regia di Gianfranco de Bosio. Musicalmente non si è andati al di là un’aurea mediocritas, che è poi la cifra di lettura per gran parte delle esecuzioni, verdiane e non, di questi anni piuttosto grami. Il direttore Julian Kovatchev ha cercato di conferire unità ed entusiasmo al tutto, riuscendovi solo in parte. Il protagonista Ambrogio Maestri ha il fisico e la voce della parte, ma la usa con discutibili risultati artistici, mettendo in evidenza, soprattutto nel quarto atto, seri problemi di emissione e di intonazione. Carlo Colombara (Zaccaria) ha offerto una prova sostanzialmente incolore, che tuttavia ha quasi sempre superato i molteplici ostacoli della sua ardua parte. Tatiana Melnychenko ha una dizione oscura, è un buon soprano lirico e non ha voce per Abigaille, però canta con una certa espressività e ha dato il meglio di sé nel commovente finale, accanto all’eccellente Fenena di Anna Malavasi e all’Ismaele di Stefano Secco.

Una gradita sorpresa per La traviata, proposta nell’allestimento firmato nel 2011 da Hugo de Ana:
la graziosa e promettente croata Lana Kos, esordiente in Arena. La sua voce – per quanto di volume limitato e con qualche problema di natura tecnica – spazia sicura nel primo atto, ma raggiunge il suo acme espressivo nel secondo e soprattutto nel terzo atto. Alfredo Germont ha la figura e la voce simpatica dell’inglese John Osborn, oggi uno dei migliori tenori oggi in circolazione. Terzo a buona distanza viene Roberto Frontali, la cui confermata monotonia vocale è apparsa ulterioremente appesantita da talune sguaiataggini di emissione che non gli conoscevamo. La bacchetta di Andrea Battistoni ha aggiunto di suo un’incertezza di comportamento che però non ha nuociuto alla compattezza dell’insieme.

Naturalmente l’attenzione maggiore era puntata sulla nuova edizione di Aida, scelta per celebrare il centenario dell’Arena e affidata alle cure della Fura dels Baus. Al celebre team artistico l’opera verdiana «appare come un amalgama tra l’attrazione per l’antico Egitto delle enigmatiche piramidi ed il fascino dell’illimitata forza del progresso», donde un allestimento complesso e tecnologico, a tratti molto suggestivo, che mira a «raggiungere una sintesi corretta tra la cultura, la spettacolarità e l’avanguardia». Come spesso capita con gl’immaginifici catalani, il risultato è da prendere e accettare, oppure respingere, in blocco. Il pubblico dell’Arena ha espresso la sua convinta approvazione, anche se condita da qualche dissenso.

La parte musicale ha riscattato talune discutibili soluzioni visive grazie anche all’abilità del direttore Omar Meir Weller, che ha autorevolmente tenuto le fila dello spettacolo. Il cast è stato dominato dalla prestazione esemplare di Hui He, senza dubbio una delle migliori Aide areniane ascoltate nel dopoguerra, alla quale purtroppo non ha corrisposto un’Amneris di altrettanto valore: la veterana Giovanna Casolla non è un mezzosoprano e ce ne siamo accorti fin dall’inizio. All’altezza del compito Fabio Sartori (Radames), Ambrogio Maestri (Amonasro), Adrian Sampetrean (Ramfis) e Roberto Tagliavini (Il re).

 
 
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