Estela de Carlotto fu l'ispiratrice delle "Abuelas", "Nonne di Plaza de Mayo". Il movimento popolare, dal 1977, lotta assieme alle Madri di Plaza de Mayo per rintracciare i bambini desaparecidos, sequestrati con le loro madri durante la dittatura. Nel 1998 Famiglia Cristiana era andata a intervistarla. Vi riproponiamo quell'intervista.
Un corteo fa sfilare i ritratti dei desaparecidos. In copertina: Estela de Carlotto.
QUEI LADRI DI NEONATI (da Famiglia cristiana n. 15/1998)
Nel 1978 l'Argentina sta vivendo uno dei momenti più bui dell'ultima, feroce dittatura militare. Sono gli anni dei desaparecidos. Laura Carlotto, una ventenne aderente al movimento della Gioventù peronista, viene sequestrata a Buenos Aires e incarcerata a La Piata, in uno dei tanti campi di concentramento clandestini dove finiscono studenti, operai, intellettuali, sacerdoti oppositori del regime golpista. Il suo compagno viene fucilato dopo un mese, lei è incinta e viene tenuta in vita fino al parto, che avviene in un ospedale militare. Cinque ore dopo la nascita, le strappano il piccolo Guido dalle braccia per andare a venderlo. Due mesi dopo viene barbaramente eliminata a colpi di fucile in faccia e nel ventre. Il suo corpo sarà riconsegnato dai militari ai genitori dietro il pagamento di un forte riscatto. Guido, invece, è ancora desaparecido. Da allora la nonna Estela Carlotto cerca il nipote.
Nel frattempo è diventata un simbolo della tenacia delle donne argentine. Attorno a questa irriducibile ex maestra elementare è cresciuto un gruppo di donne che ha dato vita all'associazione "Abuelas (nonne) de Plaza de Mayo" per denunciare quello che allora era solo un pesante sospetto: la desaparición di tanti bambini venduti come bottino di guerra. Hanno iniziato a cercarli per restituire loro l'identità perduta e assieme la verità per troppo tempo nascosta.
Una lotta tutta al femminile, assieme alle "madres de Plaza de Mayo", che le ha portate davanti a tribunali e governi di mezzo mondo a chiedere giustizia per i loro nipoti. E ancor oggi continuano a lottare. Ora esce un libro (Le irregolari, Edizioni E/O) che per la prima volta in Italia racconta in modo scrupoloso quello che molti sapevano, ma che pochi osavano dire: la vera storia di quegli anni di terrore, il sistematico ricorso alla tortura e alla desaparición, l'istituzione dei campi di detenzione. Autore di questo viaggio negli orrori della dittatura argentina è, per uno strano gioco della sorte, un lontano nipote di Estela, Massimo Carlotto, scrittore padovano noto anche per la sua controversa vicenda giudiziaria, conclusasi pochi anni fa, che ha scoperto questa sua parentela proprio nei suoi viaggi di documentazione nel Paese sudamericano. Abbiamo incontrato Estela in Italia. Ritornerà a Roma a giugno per l'avvio del primo processo italiano che vede alla sbarra, per sequestro di persona e omicidio, alcuni militari, tra cui Guillermo Suarez Mason, comandante del Primo Corpo d'Armata che avrebbe ordinato l'uccisione di cinque italo-argentini. Tra questi Laura Carlotto. Altri procedimenti penali nei confronti di ufficiali argentini sono stati aperti in Spagna e in Germania. Uno si è già concluso in Francia.
Una delle tante manifestazioni delle Madri di Plaza de Mayo.
- Estela, le "Abuelas de Plaza de Mayo" lottano da 21 anni. Quali strumenti avete usato per trovare i vostri nipoti?
«La nostra è stata una scelta solitaria di dodici nonne, fatta con molta paura. I militari non volevano ridarci i nostri nipoti e neanche ridare la libertà ai nostri figli, così ci siamo inventate una strategia. Abbiamo fatto tanta strada nella lotta per la restituzione dei nostri nipoti. Anzitutto abbiamo chiesto aiuto al popolo argentino, cercando informazioni tra i testimoni di allora. È accaduto anche che gli stessi militari abbiano raccontato in giro di avere bambini "figli di terroristi". Non è passato inosservato, in altri casi, l'improvvisa comparsa di un bambino in famiglie di poliziotti, in cui non si era mai vista la moglie incinta».
- Una volta trovato il nipote, come agite?
«L'unico modo certo per identificarlo è quello della emocompatibilità attraverso un particolare esame clinico. Siamo riuscite a creare una banca dati a Buenos Aires, unica nel mondo, che fa questo tipo di ricerche per noi. È stata una grande conquista. Poi sporgiamo denuncia presso il Tribunale dei minori e affidiamo i casi ai nostri avvocati. È un lavoro molto difficile, perché il giudice non sempre decide che il ragazzo torni con la sua famiglia d'origine».
- Quanti nipoti avete trovato in questi anni?
«Dei 230 casi accertati di bambini nati in campi di concentramento, 59 sono stati trovati e di questi 31 sono tornati con la famiglia biologica, 14 sono rimasti con la famiglia che li ha adottati. Otto sono morti».
- Qualcuno in Argentina obietta che il dolore della verità crei nuovi traumi a questi ragazzi. Che cosa ne pensa?
«Noi diciamo che il vero trauma per il bambino è stato quello di sentirsi strappato dalle braccia della madre, sequestrato, e aver vissuto nell'ipocrisia. Il racconto della verità è certo uno choc. Succede a volte che questi ragazzi rifiutino di sapere. Ma quasi sempre, a poco a poco, quando comprendono che c'è una famiglia che li ama e che li ha cercati per anni, iniziano a volere la verità. Il passo successivo è spesso l'integrazione con i loro parenti. In questo momento abbiamo ragazzi quasi adulti, dai 16 ai 20 anni. E allora bisogna ascoltarli con attenzione, ma mai lasciarli soli, alla loro sorte. È questo un altro nostro impegno: il sostegno psicologico dopo aver raccontato la verità al nipote e alla famiglia. Ci avvaliamo di una équipe di psicologi molto preparata. Il nostro obiettivo è che questi ragazzi riabbiano la loro identità. Non importa, poi, con chi decidono di vivere: con la famiglia che li ha adottati in buona fede, con i nonni, o da soli, ma non con chi li ha volutamente rapiti, perché sarebbe troppo crudele farli vivere con chi ha ucciso i loro genitori. Sarebbe un conflitto troppo forte. Nessuno dei ragazzi ritrovati ha voluto continuare a vivere con le famiglie dei militari, anche se il giudice gliene da la possibilità».
Alberto Laggia