Il 24 marzo 1976, una giunta militare
guidata dai comandanti
dell’Esercito Jorge Videla, della
Marina Eduardo Massera e
dell’Aeronautica Orlando Agosti
depone la presidente dell’Argentina
“Isabelita” Peron e instaura la dittatura
militare. Per il Paese sudamericano è
l’inizio di una tra le pagine più drammatiche
della propria storia, che conosce
conclusione solo nell’ottobre del 1983,
con il ritorno alla democrazia e l’elezione
alla presidenza di Raul Alfonsin.
Il colpo di Stato, che le forze armate
stanno organizzando da almeno un
anno, viene da lontano. È figlio della
crisi economica che attanaglia l’Argentina,
del clima da guerra civile che rende
il Paese una replica aggiornata delle
pagine più cupe di Hobbes – il tutti
contro tutti vede affrontarsi peronisti
e antiperonisti d’ogni fatta e tendenza,
sindacalisti ed ecclesiastici, guerriglieri
e militari – e di politiche di governo che
puntellano con la violenza la propria
debolezza e invece di porvi rimedio aumentano
il disordine.
Giunta la loro ora, i leader della junta
– imbevuti di nazionalismo, anticomunismo
e cattolicesimo ultramontano –
annunciano che «le forze armate hanno
preso in mano la guida dello Stato» allo
scopo di «farla finita con il disordine, la
corruzione e l’azione sovversiva».
È l’inizio
del cosiddetto processo di riorganizzazione
nazionale, incardinato su due
grandi obiettivi: da un lato normalizzare
un’economia alla deriva, incarico assunto
da uno dei due soli civili della junta, il
ministro Martinez de Hoz, che prova
(invano) a porvi rimedio aprendo il Paese agli investitori esteri e ai loro capitali;
dall’altro, per l’appunto, ritornare all’ordine,
alla disciplina e alla pace sociale
– parole care anche agli industriali, agli
agrari e ai ceti medi – e dunque reprimere
la «sovversione». Tuttavia, i nuovi leader
argentini interpretano quest’ultimo
termine in maniera decisamente estensiva:
come ha proclamato rudemente
Videla, per stroncarla e riportare la pace
«dovranno morire tutte le persone che
sia necessario».
Convinte di combattere una guerra
contro un nemico interno con il quale
non sono possibili patteggiamenti, di
incarnare il bene tanto quanto gli avversari
il male, in breve, di essere strumenti
della provvidenza divina, le forze armate
non limitano l’attacco alle manifestazioni
più evidenti della sovversione – si
ponga il caso, stroncando la guerriglia
dei montoneros – ma puntano a estirparla
alle radici, a distruggerne ogni
canale d’infiltrazione, dalle scuole alle
università, dalle fabbriche ai giornali.
A tal fine, apprestano misure e strutture
repressive tanto ufficiali quanto
clandestine.
Sul primo versante, ciò che
si realizza è né più né meno che lo scardinamento
dello Stato di diritto: aggiornamento
sine die dello stato d’assedio,
restrizione della libertà di stampa e
di associazione, riordino (previa purga)
della magistratura, ampliamento della
giurisdizione dei tribunali militari
su quelli civili, ripristino della pena di
morte e via discorrendo. Sul secondo
versante ciò che si organizza è un apparato
repressivo occulto, destinato alla
soppressione fisica dei nemici. Poiché i
generali tengono enormemente
alla loro immagine di rispettabilità internazionale
(anche il mundial di calcio
del 1978 dovrebbe contribuire a ripulirla
dal fango della guerra sporca) e a
non fare la figura dei boia come il vicino
Pinochet – con il quale i rapporti sono
oltremodo tesi – è a questo livello, pervicacemente
negato, che il terrorismo
di Stato si scatena in tutta la sua ferocia.
Per colpire gli obiettivi selezionati
il metodo è quasi sempre lo stesso: nella
notte, a bordo d’una Ford Falcon in
dotazione alla polizia, 5 o 6 uomini si
presentano a casa della vittima – che
però può anche essere prelevata per
strada, sul posto di lavoro o di studio
– la incappucciano, la sequestrano e la
conducono verso uno dei molti centri
di detenzione clandestina allestiti dalle
forze armate: tra questi, più tristemente
noti divengono il Campo de Mayo e
la Escuela de Mecanica de l’armada, entrambi
a Buenos Aires. Qui gli arrestati
subiscono ogni tipo di sevizia – la peggiore
è la picaña, la tortura tramite scariche
elettriche – e infine partono per il
volo: imbarcati su aerei, vengono sedati,
condotti sull’oceano e, una volta denudati,
gettati a mare dai portelloni. È
la sorte dei desaparecidos, circa 30 mila
persone – operai (il 30%), studenti (il
21%), impiegati (il 18%), docenti (oltre
il 5%), giornalisti (oltre l’1,5%), due terzi
dei quali hanno tra i 16 e i 30 anni – che
scompaiono senza lasciar traccia di sé.
Mentre il Paese precipita in
quest’orgia di violenza, che cosa fa la
Chiesa? Finisce lei pure travolta nella
barbarie, vivendo la più grande crisi che
l’abbia mai lambita. Ma, al di là di ogni
vulgata, sarebbe errato assegnarle un
ruolo soltanto. Fin dalla creazione dello
Stato, e ancor più dagli anni d’oro di
Peron (1946-1955), il cattolicesimo impregna
ogni aspetto della vita del Paese;
e là dove tutto è cattolico – ha scritto
Loris Zanatta – la Chiesa finì «per interpretare
tutti i ruoli: benedisse militari
e crebbe guerriglieri, protesse operai
e confessò industriali, invocò il Cristo
rivoluzionario e il Dio antisovversivo».
Basta uno sguardo, dunque, per
cogliere nel corpo ecclesiale tutto e il
contrario di tutto.
C’è il vicario castrense
Adolfo Tortolo, intimo dei militari,
che intende il proceso come un’opera
d’espiazione e c’è il suo clero, che – tra
infiltrazioni e delazioni – è largamente
coinvolto nell’opera di repressione se
non nella stessa logistica della violenza.
Ma c’è anche il vescovo di La Rioja, Enrique
Angelelli, impegnato a fianco dei
più poveri, che denuncia la violenza dei
militari e che finisce assassinato in un
incidente d’auto simulato. Ci sono vescovi che, in nome d’una
lunga consuetudine tra Chiesa e forze
armate, non concepiscono neppure
l’idea di giungere a uno scontro con la
junta, ora approvandone i metodi –
d’altronde, se i nemici dell’Argentina
(ovvero dei militari) «stanno col demonio…
devono pagare le conseguenze»
– ora cercando di utilizzare quell’antica
familiarità per tentare di moderarli.
C’è la Conferenza episcopale argentina,
spaccata a metà e incapace di produrre
un documento di condanna del regime,
ma solo pagine annacquate dagli estenuanti
compromessi su cui si attesta
per non spaccarsi. E ci sono gli ordini
religiosi, dai Gesuiti che il provinciale
Jorge Mario Bergoglio sta faticosamente
tentando di riportare all’unità dopo
la grande sbornia del connubio tra fede
e rivoluzione, ai Pallottini colpiti perché
accusati di essere «terzomondisti»
e «avvelenatori» della gioventù argentina,
fino ai Piccoli fratelli del Vangelo,
la cui Congregazione viene completamente
annientata per la sua vicinanza
agli ultimi della terra.
Infine c’è Pio
Laghi, il nunzio inviato da Paolo VI in
Argentina, che parte nutrendo qualche fiducia nel regime, giunge presto ad
avversarlo, barcamenandosi tra leader
politici che professano una cattolicità
del tutto sorda ai richiami romani, una
Chiesa che non può prendere posizione
se non acuendo le proprie fratture, un
clero rivoluzionario che va ricondotto
all’obbedienza e uno tradizionalista che
non va spinto tra le braccia di Lefebvre.
Il risultato finale non può che essere
un miscuglio di diplomazia e coraggio,
paura e silenzi, omissioni e partecipazioni
alla violenza.
Del dramma argentino che cosa resta
oggi? Nonostante tutti i leader della
junta siano morti – Agosti nel 1997,
Massera nel 2010, Videla nel 2013 –
come ha ricordato il premio Nobel per
la pace Pérez Esquivel (ai tempi del
proceso imprigionato e torturato) la loro
scomparsa non ha significato la scomparsa
del male arrecato all’Argentina.
Cessata la violenza sui corpi sono restate,
e per alcuni aspetti restano ancora, le
ferite della memoria. Eppure, tra non
poche contraddizioni, il Paese ha provato
a fare i conti con il passato, vuoi
costretto dalla tenacia delle madres e
delle abuelas di Plaza de Mayo, vuoi dai
processi che – nonostante l’amnistia
Menem del 1989-1990 – hanno toccato
molti tra i maggiori (e mai pentiti)
responsabili del proceso.
Nel 2000, anche
la Chiesa argentina – primate Bergoglio
– è giunta a confessare le proprie
colpe riguardanti «la violenza guerrigliera
e la repressione illegittima che
hanno messo a lutto la nostra patria» e a
chiedere perdono «per i silenzi responsabili
e per la partecipazione effettiva
di molti dei tuoi figli a una situazione di
così grave scontro politico, all’oltraggio
alle libertà, alla tortura e alla delazione,
alla persecuzione politica e all’intransigenza
ideologica, alle lotte e alle guerre
e alla morte assurda che hanno insanguinato
il nostro Paese».
In quanto ai sospetti di vicinanza tra
Bergoglio e la junta emersi dopo il conclave
del 2013, hanno già ricevuto documentate
e sufficienti smentite perché
se ne aggiunga qui un’altra.