Qui, in copertina e nelle altre foto: il Memoriale del genocidio di Kigali, in Ruanda. In questa foto: la scultura all'ingresso del Memoriale. In copertina: l'ala dedicata ai bambini uccisi nel genocidio (Le foto sono di Luciano Scalettari)
La notizia, pubblicata dai quotidiani The Times of Israel e Ha'aretz, è passata quasi inosservata. Potenzialmente rilevante è il non detto e il non rivelato che balena dietro il semplice diniego in questione. Perché dire di no? Quali rivelazioni sarebbero così scomode da mettere a rischio la sicurezza nazionale e così imbarazzanti da incrinare le relazioni internazionali? E con chi?
Domande che resteranno senza risposta. I documenti resteranno secretati, come è stato deciso la settimana scorsa (l'11 aprile).
Due delle tante pareti piene di fotografie di persone uccise durante il genocidio, al Memoriale di Kigali, la capitale ruandese.
Nel 2014 il professor Yair Auron e il procuratore Eitay Mack avevano inoltrato una “freedom and information request” al Ministero della Difesa per avere accesso alle informazioni sull'export di armi verso il Ruanda dal 1990 al 1995, con particolare attenzione al 1994, anno del genocidio. Nella richiesta si leggeva: “Secondo vari report in Israele e all'estero, l'export della Difesa verso il Ruanda apparentemente violò la legge internazionale, perlomeno durante il periodo dell'embargo imposto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.
Una corte di Tel Aviv aveva negato il permesso, Mack aveva fatto appello e la sentenza, arrivata pochi giorni fa, è stata motivata a porte chiuse. “Tuttavia”, ha reso noto la Corte, non è detto che la sentenza non possa essere rivista, se la forza dell'interesse pubblico ad avere informazioni supererà la forza delle preoccupazioni”.
Il diniego ha portato il procuratore Mack a parlare di sentenza «erronea e immorale», dalla quale «Israele ha solo da perdere», ma ha se non altro plaudito al fatto che nella sentenza attuale si riconosca il genocidio ruandese, cosa che la precedente sentenza aveva rifiutato di fare. Inoltre, ha sottolineato che «in nessun punto della sentenza è stato negato l'export della Difesa durante il genocidio», e ha ribadito che il lavoro per avere accesso alla verità non si ferma.
Il Memoriale di Murambi a ricordo di quanto avvenne durante il genocidio: all'interno di questa scuola tecnica furono trucidate 50 mila persone in pochi giorni. Una parte dei corpi ritrovati nelle fosse comuni è stata mummificata esattamente come fu rinvenuta.
Dietro lo scontro fra il diritto dell'opinione pubblica a sapere e la sicurezza nazionale da tutelare, in questo caso, si cela un frammento della verità ancora mancante sui terribili cento giorni che sconvolsero il Paese delle mille colline, dove furono massacrati fra gli 800 mila e il milione di persone, nella stragrande maggioranza tutsi. I massacri avvennero quasi sempre all'arma bianca, con coltelli e machete, ma ci sono elementi che mostrano anche l'uso di proiettili da 5.56mm, granate e fucili di fabbricazione israeliana. La documentazione di tali vendite e la loro portata resterà però ignota.
Il procuratore Mack ha depositato anche altre richieste in base al Freedom of Information Act, volte a conoscere l'export di armi compiuto da Israele in passato verso altri teatri di guerra o Paesi in cui si registravano violazioni dei diritti umani, inclusi Bosnia, Cile, Uganda e Guatemala. Mack, insieme a Meretz Zandberg, ha anche lavorato per impedire invio di armi al Sud Sudan. Insieme, avevano anche promosso una legge che proibisse la vendita di armi a Paesi che non rispettano i diritti umani, ma la proposta fu bocciata dalla Knesset.