In quella che il Papa chiama Terza guerra mondiale a pezzi, si spara made in Italy su vari fronti. Tra gli Stati europei, l’Italia è infatti ai primi posti di quella che, sempre Francesco, ha definito «l’industria della morte», che «guadagna perché si vendono le armi ai Paesi che sono in guerra tra loro».
In Siria abbiamo esportato 500 sistemi di puntamento Turms per ammodernare i carri armati T72 di fabbricazione sovietica, quelli che i militari fedeli a Bashar al-Assad hanno usato per sparare cannonate anche sulla popolazione. «È stata – dice Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal di Brescia – la più importante commessa italiana di tutti gli anni ’90 (400 miliardi di lire, oltre 200 milioni di euro). E la consegna è proseguita fino al 2009».
Produzione delle Officine Galileo (poi Selex ES), controllate da Finmeccanica, che ha fatto sparire la documentazione dal sito dopo la preghiera per la Siria indetta dal Papa nel 2013 contro l’annuncio dell’intervento militare occidentale. Tutto autorizzato dai diversi Governi italiani, un affare in perfetto stile bipartisan. Secondo l’autorevole centro di ricerca Sipri di Stoccolma, l’Italia è stata la principale esportatrice europea di armi in Siria dell’ultimo decennio, per 131 milioni di euro. Abbiamo rifornito sia Assad, sia le forze di opposizione, si legge nel suo rapporto del 2013.
«Certo – continua Beretta – sembra poca cosa se confrontato con l’export verso Damasco della Russia, ma anche di Iran, Bielorussia e Corea del Nord». Il solo paragone dovrebbe imbarazzare. Le consegne italiane in Siria sono sospese dal 2011, ma l’analista di Opal fa notare una singolare coincidenza: “Da quella data sono fortemente aumentate le spedizioni di armi dal distretto armiero bresciano, dove si concentra la produzione italiana, verso tutti i paesi confinanti con la Siria. La Turchia per esempio: si è passati da meno di 1,7 milioni di euro nel 2009 ad oltre 36,5 nel 2012”. Difficile pensare che a Istanbul siano improvvisamente diventati tutti collezionisti di armi, né che il tiro al piattello sia diventato lo sport più diffuso in Anatolia.
Tra gli scheletri nell’armadio, anche il sospetto che i sistemi di puntamento Turms italiani fossero parte delle armi che tra il 2000 e il 2003 Assad girò a Saddam Hussein alla vigilia dell’intervento in Iraq dell’amministrazione Bush. Come rivelò un reportage del Los Angeles Times, per aggirare l’embargo, il presidente siriano acquistava le forniture militari e, tramite la Ses International Corporation controllata da esponenti del partito Baath di Damasco, le girava a Baghdad. Quello che è certo, invece, è che in Iraq il made in Italy ha esportato 80mila piastre balistiche (11,8 milioni di euro; si usano nei giubbotti antiproiettile e nei carri armati) nel 2013 e 4 pattugliatori con mitragliere nel 2007 (84 milioni di euro). Poi ci sono le armi date al Governo di Baghdad e ai peshmerga curdi che combattono in Iraq nel 2014, fornitura confermata anche per il 2015. Qui però si tratta soprattutto di fondi di magazzino: un lotto di fabbricazione sovietica sequestrato a un trafficante russo, che nel 2006 il Tribunale di Torino impose di distruggere ma che invece furono conservate nell’isola sarda della Maddalena. Ancora più forte la nostra responsabilità su un altro fronte caldo, il caos libico. Dal 2005 al 2012 l’Italia ha autorizzato commesse per 375,5 milioni di euro in Libia, finite ora in mano a tutte le fazioni in guerra tra di loro; leader degli affari è Finmeccanica, di cui il Ministero dell’Economia è il principale azionista. Tra i governi europei siamo secondi solo alla Francia (431,7 milioni di euro), ma in questa triste classifica, insieme ai vicini transalpini, stacchiamo nettamente i successivi: la Gran Bretagna (161,8), la Germania (95,9) e il Belgio (22,9).
Del resto, dalle Relazioni inviate dal Governo alle Camere, si ricava che nel quinquennio 2010-2014 la meta principale delle nostre armi è stato il Medio Oriente in fiamme. Cinque miliardi di euro, rispetto ai poco meno di quattro del 2005-09. Un’aggravante degli ultimi anni è la diminuzione della trasparenza attorno a queste esportazioni, ma tra i maggiori acquirenti c’è sicuramente l’Arabia Saudita, a cui abbiamo venduto caccia Eurofighter, missili Iris-Ti e un ampio arsenale di bombe. Ovvero quelle che gli sceicchi, con l’appoggio dei paesi sunniti della regione, lanciano da cinque mesi sullo Yemen per contrastare l’avanzata del movimento sciita Houthi, senza alcun mandato internazionale. 4mila morti, 20mila feriti, un milione di sfollati. Eppure, hanno recentemente denunciato Opal, Amnesty International e Rete italiana per il disarmo, “l’industria della morte” italiana continua a vendere bombe all’Arabia.