Nel 2011 le autorizzazioni alle esportazioni di armamenti sono aumentate del 5,28%. E le operazioni più consistenti riguardano Paesi come l'Algeria e Singapore, al di fuori delle tradizionali alleanze dell'Italia: solo il 36% delle autorizzazioni, infatti, è verso Stati della Nato, dell'Ue o dell'Osce (per un valore di 1,1 miliardi di Euro), mentre oltre il 64% (per un valore di 1,959 miliardi di euro) è diretto verso Paesi non inseriti in queste rete di rapporti diplomatici che si nutre di valori comuni.
Non si tratta di dati isolati, ma di una tendenza in atto da tempo. Nell'ultimo triennio, come rivela un'analisi congiunta dei rapporti governativi, le direttrici delle esportazioni italiane sembrano essersi nuovamente orientate verso Paesi in via di sviluppo. Qualcosa di simile a quello che accadeva negli anni '70 e '80. «Questi dati allarmanti – commenta Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace – dimostrano che le armi si vendono nei Paesi dove cresce l'instabilità, in contrasto con i principi della Costituzione e della legge 185 del 1990. E' particolarmente grave che l'elenco dei destinatari includa anche territori carichi di conflitti e tensioni».
«Nel 2011 il primo Paese acquirente di armi italiane è stato l'Algeria, una terra in grave difficoltà economica, dalla quale arrivano anche denunce di violazioni dei diritti umani», prosegue Lotti. «E che dire della Libia e della Siria, due Paesi verso cui l'Italia ha esportato sistemi militari più di qualunque altro Stato europeo? Le armi uccidono la democrazia prima ancora che le persone e la vendita indiscriminata di materiali bellici rischia di ritorcersi contro le stesse politiche di sicurezza stabilite a livello nazionale ed europeo». Solo un serio confronto politico potrebbe aiutare a far luce su questioni così delicate «ma finora – fa notare ancora Lotti - il Parlamento non ha mai discusso le relazioni annuali presentate dal Governo. Possibile che le commissioni competenti non abbiano trovato il tempo per analizzare i dati? Emerge da parte delle Camere una pericolosa disattenzione: in questo modo non è neppure possibile portare alla luce le contraddizioni contenute nei resoconti annuali».
Ecco perché la Rete italiana per il disarmo e la Tavola della pace lavorano per iniziare quanto prima un confronto politico e chiedono al governo Monti un incontro urgente sulle esportazioni militari: «Molti punti sono da chiarire – conclude Lotti – Al momento non sappiamo neppure chi sia il consigliere militare dell'attuale esecutivo. Tuttavia vogliamo prendere sul serio la volontà di cambiamento espressa da questo Governo. Continueremo a procedere con gli strumenti che ci sono propri, confronto non violento e mobilitazione della società civile, nella speranza che il muro di silenzio, divenuto di anno in anno sempre più impenetrabile, si rompa lasciando il posto a una maggiore trasparenza».
Atteso per fine marzo, il dossier del Governo è stato reso noto solo il 24 aprile. Si tratta del Rapporto della Presidenza del Consiglio relativo alle esportazioni e importazioni militari nel 2011. Il resoconto, versione sintetica di una più lunga relazione depositata in Parlamento, è una delle conquiste scaturite dalla legge 185 che dal 1990 disciplina la delicata e controversa questione dell'import/export di sistemi d'arma. La sua pubblicazione dovrebbe essere garanzia di trasparenza, strumento di informazione e dialogo con la società civile.
Quest'anno il Rapporto ha sollevato molti dubbi, tra ritardi, lacune, dati "ballerini" e prospettive poco rassicuranti. Le esportazioni di armi italiane aumentano, soprattutto verso le zone di maggior tensione del mondo. Intanto le informazioni fornite dal Governo, già diminuite negli ultimi anni, diventano ancora più scarse E scorrendo le 101 pagine di cifre e grafici, i ricercatori hanno notato alcune significative mancanze rispetto agli anni passati. E' scomparsa la cosiddetta "tabella 15", un prezioso strumento di valutazione e controllo. «Dopo un intenso confronto con i rappresentanti dell'ultimo governo Prodi – spiega Giorgio Beretta, analista della Rete italiana per il disarmo - eravamo riusciti a far inserire nel rapporto una tavola sintetica, che documentava valori e tipologie di sistemi militari autorizzati verso i singoli Paesi. Quest'anno la tabella 15 è stata semplicemente cancellata, senza spiegazioni, cosa che rende sicuramente più difficile il nostro lavoro di ricostruzione e monitoraggio».
A un esame meticoloso del testo governativo emergono anche alcune imprecisioni. Per fare qualche esempio, dalla lista dei principali Paesi destinatari di autorizzazioni all'esportazione di armi sparisce l'India, che pure occupa il terzo posto (con autorizzazioni per 259,41 milioni di Euro) come segnalato altrove nel Rapporto. E l'elenco dei principali destinatari dei Paesi Ue/Nato tralascia la Turchia, benché si tratti del primo acquirente di armi Italiane nell'area Nato. L'unico modo per conoscere la reale posizione di questi Paesi è andare a spulciare le tabelle allegate al rapporto. Possibile che si tratti solo di sviste dovute alla fretta? «Difficile dirlo – risponde Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il disarmo – Noi ci limitiamo a osservare che tanto l'India quanto la Turchia sono territori densi di controversie, sui quali sarebbe opportuno tenere alta l'attenzione».
Nuove lacune si sommano a mancanze consolidate. Già dall'inizio dell'attuale legislatura, la Relazione presentata in Parlamento non contiene più il "Riepilogo in dettaglio per istituti di credito", una tabella molto utile, che per anni ha riportato tutte le singole operazioni autorizzate alle banche. Gli istituti di credito sono un anello importante nella catena delle esportazioni. Recentemente alcune banche hanno adottato politiche di trasparenza e hanno cercato di limitare i servizi d'appoggio al commercio di armi, almeno verso le aree più critiche. «Ma senza informazioni dettagliate e precise – spiega Vignarca - queste politiche virtuose rischiano di essere disincentivate, a vantaggio delle banche che invece non hanno adottato alcuna policy in materia di armi».
In Europa è un caso più unico che
raro: una normativa all'avanguardia, che vincola il commercio d'armi
a restrizioni e controlli ben precisi. Per ottenerla ci sono volute
due legislature e un grande lavoro della società civile. Parliamo
della legge 185 del 1990, nata alla luce dei principi dell'articolo 11 della Costituzione: «L'Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali». Dopo oltre
vent'anni dalla sua approvazione, questa storica legge sarà cambiata
con un decreto delegato di cui è in corso la discussione. Molti
temono che la modifica introduca norme più permissive in materia di
export militare, aprendo un pericoloso varco al commercio
internazionale di armi, anche verso le zone "ad alta tensione".
In Italia il dibattito su questi temi
ha una storia relativamente recente. Ancora a metà anni '80 il commercio di
armamenti era coperto da segreto militare, cosa che rendeva possibili
traffici e triangolazioni anche verso Paesi sotto embargo Onu. Per
cambiare la situazione fu necessaria una forte pressione della
società civile, sensibilizzata dalla campagna "contro i
mercanti di morte". Il peso del mondo cattolico fu decisivo:
voci autorevoli, come quelle di padre Alex Zanotelli, Eugenio
Melandri e don Tonino Bello, lanciarono appelli memorabili. E dopo
anni di dibattito parlamentare si arrivò all'approvazione di una
normativa nuova, che aveva il sapore di una conquista storica.
La
legge 185/90 impone precisi divieti (in particolare proibisce il
commercio di armi verso Paesi in stato di conflitto, sotto embargo
Onu o che violino le convenzioni internazionali sui diritti umani) e
prevede un sistema di controllo del Governo sulle industrie
produttrici. Non solo: impone all'esecutivo di produrre, entro il 31
marzo di ogni anno, un rapporto dettagliato sulle esportazioni e
importazioni militari.
Negli ultimi decenni, anche a livello
europeo, si è cercato di porre un freno al commercio internazionale
di armi: esiste a riguardo un Codice di Condotta Ue del 1998,
aggiornato dieci anni più tardi con una Posizione Comune. Ma si
tratta di criteri generali, interpretati con molta elasticità dai
diversi Paesi europei.
Da Bruxelles però arrivano anche
sollecitazioni diverse. E' stata infatti approvata una direttiva Ue
(questa sì, con valore vincolante) che dovrebbe facilitare i
movimenti di sistemi militari tra i Paesi dell'Unione. A far
discutere non è tanto la direttiva in sé, quanto la catena di
conseguenze che potrebbe avere. La normativa italiana prevede una
tracciabilità completa dei sistemi d'arma prodotti nel nostro Paese,
tanto che se uno Stato europeo vuole esportare materiale bellico
italiano deve chiedere un autorizzazione al nostro Governo e spiegare
qual è la destinazione finale. Ma in futuro questo sistema potrebbe
ammorbidirsi.
«Su alcuni punti la direttiva Ue è piuttosto vaga –
fa notare Chiara Bonaiuti, ricercatrice presso Oscar Ires Toscana –
Sta quindi molto alla responsabilità dei Governi nazionali
dettagliare gli aspetti relativi alla trasparenza e al controllo
parlamentare, alla responsabilità sulla destinazione finale e alle
clausole di restrizione all’esportazione. Inoltre, considerato che
le armi non sono merci come tutte le altre, è necessario,
soprattutto in questa prima fase, mantenere una tracciabilità,
raccogliendo tutte le informazioni sugli spostamenti e riportandole
nella relazione annuale al Parlamento, in armonia con i documenti
sulla strategia di sicurezza europea interna e internazionale». In
sostanza, più sono gli organismi che controllano, meglio è.
Per recepire la direttiva europea si è
messo in moto il meccanismo di revisione della legge 185/90. E qui
tocchiamo un altro nodo problematico. La decisione di cambiare la
normativa mediante legge delega è stata contestata: molti hanno
ritenuto inopportuno sottrarre al dibattito parlamentare la riforma
di una legge che proprio nel Parlamento aveva trovato il suo punto di
forza. «Oltretutto – prosegue Bonaiuti – le indicazioni di
Bruxelles non sono necessariamente in contrasto con la nostra
normativa. Anzi, proprio perché particolarmente completa e attenta,
la legge 185/90 potrebbe diventare un modello a livello europeo e
offrire strumenti di valutazione della direttiva in vista del test
che verrà realizzato nel 2012».
Anche Giorgio Beretta, ricercatore della Rete italiana per il disarmo, lancia l'allarme: «Siamo seriamente preoccupati. Non tanto per le facilitazioni ai trasferimenti intra-comunitari, ma per il rischio che, attraverso una serie di riesportazioni, armi italiane possano essere destinate verso zone di conflitto o addirittura finire in mano a reti terroristiche».
A riguardo parlano i dati più di qualunque considerazione. Un recente dossier della rivista Missione Oggi documenta le esportazioni di armi autorizzate da Paesi Ue nel quinquennio 2006-2010: l'elenco dei maggiori acquirenti comprende Arabia Saudita (12 miliardi di euro), Emirati Arabi Uniti (9 miliardi), India (5,6 miliardi), Pakistan (4 miliardi), Venezuela (1,6 miliardi), Cina (1,2 miliardi), Egitto (1,1 miliardi), Libia (1 miliardo).
Tutte aree calde, segnate da tensioni e conflitti. A questi dati la Rete italiana per il disarmo e la Tavola della pace rispondono con l'impegno. Chiedono al Parlamento europeo di definire presto una legge sulle esportazioni di armi. La Posizione Comune elaborata dall'Ue nel 2008 è un buon punto di partenza, ma al momento non è né vincolante né sanzionatoria: bisognerebbe dunque trasformarla in una direttiva.
Non solo: le due associazioni hanno elaborato un documento in dieci punti da presentare ai parlamentari europei, una serie di regole trasparenti e puntuali che, se adottate, potrebbero cambiare la situazione: 1. migliorare i criteri restrittivi della normativa vigente 2. introdurre il divieto di esportazioni verso Stati belligeranti 3. estendere i divieti ai Paesi che presentano alti livelli di spesa militare 4. estendere i divieti ai Paesi che non rendono pubbliche le loro esportazioni e importazioni di armamenti 5. estendere il regime di autorizzazioni e controlli alle armi "non a specifico uso militare" (un punto sul quale anche la legge italiana andrebbe rivista) 6. controllare gli intermediari di armamenti 7. rendere vincolante la comunicazione delle esportazioni di armamenti 8. migliorare la relazione annuale e la trasparenza 9. promuovere il controllo parlamentare e il confronto con la società civile 10. promuovere il riordino dell'industria militare e la riconversione a fini civili.