«Uno stupore senza fine. Lo stupore di vedere come possiamo essere felici, già oggi, su questa terra. Una felicità che anticipa quella che in pienezza vivremo nell’Aldilà». Lo dice con una naturalezza sconcertante. Se non fosse che Arnoldo Mosca Mondadori, pronipote dell’omonimo editore, è un distinto signore molto noto a Milano per la sua attività culturale e sociale, sentendolo parlare così dell’Eucaristia ci sarebbe da ritenerlo un devoto un po’ ingenuo. La medesima sensazione potrebbe provare chi, non conoscendolo, sfogliasse Il farmaco dell’Immortalità. Dialogo sulla vita e l’Eucaristia, il suo ultimo libro-intervista, curato da Monica Mondo, da poco uscito per Scholé. Leggiamo: «Io credo che quando Dio squarcia il tempo e apre il velo, tu lo vedi. Così come Egli è, ed è inimmaginabile per noi oggi poterlo dire». Oppure: «Nell’ultima domenica delle Palme, ricordo, appena ricevuta la Comunione, ho intravisto per un istante, ho sentito un “profumo” che mi ha pervaso, e non ho potuto dire più nulla». Un visionario? Un esaltato? L’interessato ti disarma subito, con un sorriso: «Non posso parlare dell’esperienza spirituale che vivo se non partendo dai miei profondi limiti, dal mio essere peccatore».
Un dono come l’Eucaristia non lo “meritiamo”, nemmeno se fossimo buoni cristiani. Ma è frutto della gratuità assoluta di Dio, offerta a chiunque…
«Sì. Paradossalmente i nostri limiti possono essere una via per sperimentare la grandezza dell’amore di Dio. Uno degli errori che compiamo consiste nel leccarci troppo le nostre ferite, come dice il Papa. Se invece avessimo il coraggio di abbandonarci all’abbraccio di Dio, gusteremmo l’oceano immenso del suo amore, superando la paura di essere indegni di essere amati. A proposito di papa Francesco, che ho avuto la grazia di incontrare anche recentemente a Roma: nella mia vita non ho mai visto una persona capace di comunicare in maniera così profonda il senso della misericordia di Dio».
Lei si dice innamorato dell’Eucaristia. Ma oggi passare del tempo in adorazione davanti al Santissimo Sacramento è giudicato dai più, come minimo, una perdita di tempo, se non una stranezza…
«Per capire il senso dell’adorazione pensiamo all’amore per la nostra famiglia o per gli amici. Se amiamo, ci interessa coltivare la relazione. Davanti al Santissimo si sperimenta la relazione più alta che ci sia data. Cristo, nel pane eucaristico, si fa incontrare, parla all’anima. Tanti mi prendono per matto, ma io so che lì c’è una Presenza che dà una pace sublime e guida la vita. Io non potrei fare nulla se non vivessi questa relazione».
Per questo ha intitolato il suo ultimo libro Il farmaco dell’Immortalità?
«Non parlo, ovviamente, dell’immortalità terrena e perversa, perseguita da una certa ricerca scientifica o tecnologica malata che, come nel caso della Torre di Babele, vuole sfidare Dio. Questo è qualcosa di demoniaco, come lo sono l’aborto e l’eutanasia, ovvero la pretesa dell’uomo di mettere le mani sulla vita e sulla morte. No, l’Immortalità di cui parliamo è la trasfigurazione che Cristo compie su ciascuno di noi, grazie al suo amore».
Che cosa intende?
«Provo a dirlo con esempio. Se un mio figlio fosse inghiottito nell’inferno della droga io andrei a cercarlo, in qualsiasi angolo della città, fosse pure il più degradato. Lo stesso fa Cristo con noi. “Sono venuto per i malati”, dice il Vangelo. Ecco il senso del farmaco: è dato ai malati, non ai giusti. Chi ha bisogno dell’Eucaristia siamo noi. Tutti».
Fin da piccolo aveva un rapporto strettissimo con l’Eucaristia, anche se – lo racconta lei stesso – non era un alunno modello a catechismo…
«La dottrina mi ha sempre annoiato, così come spesso i catechisti. Una volta sono proprio scappato dal catechismo, saltando da un balcone, per fortuna molto basso. Fin da piccolo, però, durante la consacrazione eucaristica percepivo un’atmosfera totalmente diversa, qualcosa che mi toccava dentro. Non ne avevo la coscienza, però forse intuivo che in quel momento avviene il più grande dei miracoli, nel corso del quale il Paradiso entra nella terra».
Da giovane aveva “una mezza idea” di farsi frate. Come mai?
«Una volta andai nell’abbazia di Fossanova, in provincia di Latina, e lì provai un’attrazione fortissima: non volevo più andarmene. Qualche tempo dopo dissi a mia madre che avrei voluto farmi frate francescano, ma lei non era d’accordo. Ci ha azzeccato! Anni dopo, ho incontrato mia moglie, Caterina Roggero, che mi ha dato tre splendidi bambini».
Ed è rimasto laico…
«Forse oggi, per testimoniare Cristo in una società come la nostra servono i laici, ancora più di ieri. Ci è affidata una missione semplice anche se impegnativa: aver coscienza che la verità esiste. Si ha troppa paura di dire che la verità è Cristo; affermarlo suona come uno scandalo. Esattamente come 2000 anni fa, scandalizza dire che nell’Eucaristia c’è la presenza di Cristo. Per essere autentico, tuttavia, il cristianesimo deve scandalizzare».
Le capita, nella “Milano bene” che frequenta, di toccare argomenti di fede?
«Sì, spesso. E mi diverto nel farlo. Lo faccio senza mai provocare, ossia solo quando si crea l’occasione giusta. Cerco di raccontare, con semplicità, la mia esperienza spirituale, lo stupore di un incontro con Cristo. Ho detto “raccontare”, ma la verità è che si fa fatica a trovare le parole per dire il Mistero».
Non dovremmo, come Chiesa, tornare a questo stupore originario?
«Io i primi cristiani li vedo così: persone cui brillavano gli occhi per aver fatto un’esperienza indicibile, per aver vissuto l’incontro della vita. L’Eucaristia questo fa: trasfigura. A me succede un istante dopo aver ricevuto la Comunione. In quel momento sperimento che Cristo vive in me. Io credo che, quando si annuncia qualcosa che si vive in modo autentico, anche chi sta attorno ne rimane colpito».
L’Eucaristia è un pane e nutre chi se ne ciba. Nel libro lei afferma: «Io ho osservato come cambio». Che cosa significa?
«È come se su di me ci fosse lo sguardo di Cristo. Quando l’anima si accorge di essere illuminata da Cristo, sgorga spontaneo il ringraziamento. Eucaristia non è altro che un immenso “grazie” davanti a questo stupore».
Nel libro racconta un episodio molto curioso, che ha per scenario prima una chiesa e poi il bancone dei surgelati di un ipermercato…
«Eravamo in una piccola chiesa in Maremma, d’estate. Faceva caldissimo, mancava l’aria. Con fatica andai a fare la Comunione. Ricordo che venni “preso” e di colpo provai una gioia indicibile. Dopo Messa andai a comprare del pesce e, mentre ero impegnato nella scelta fra un merluzzo e un branzino, continuavo a provare quella pace straordinaria. Ero qui, in terra, ma contemporaneamente avvertivo una felicità dell’altro mondo».
Leggiamo nel suo libro: «Ogni uomo è una cattedrale, anche il più terribile della terra». Non è scandaloso anche questo?
«Ci sono persone in cui la presenza di Gesù brilla perché sono gioiose e serene pur vivendo momenti difficili. Penso a tanti anziani, ai malati che incontro da ministro straordinario dell’Eucaristia: sono altrettanti “tabernacoli”, con i quali provo immensa empatia. Per me è molto più difficile riconoscere il volto di Cristo nelle persone ciniche, in coloro che ti perseguitano. Lì inizia il martirio, perché siamo messi alla prova. Cerco di ricordarmi di loro nella preghiera, presentando a Dio i volti dei “nemici” nella consacrazione: è il mio modo per amarli, da solo non riuscirei a farlo».