L’immaginario collettivo tende a dipingere la violenza contro le donne come l’esito di un incontro fortuito con il lupo sconosciuto nel bosco. La realtà, numeri alla mano, s’incarica di ricordarci che il lupo cattivo, invece, il più delle volte, sta dentro casa: è un compagno, un marito, un familiare, o, comunque, un volto conosciuto, parte della cerchia delle relazioni. Non incontra la vittima per caso, ma la tiene in un clima di soggezione, maltrattamenti e solitudine da cui spesso non sa come uscire. Confusa, il più delle volte non sa come, se, a chi domandare aiuto.
Dottoressa Bruno, come si fa a chiedere aiuto e soprattutto a chi?
«Occorre ricordare che chiedere aiuto non necessariamente significa immediatamente denunciare, con tutte le conseguenze del caso. C’è un passo precedente da fare, per valutare con calma, avendo le informazioni necessarie. Esiste un numero di pubblica utilità: il 1522, è collegato agli 80 centri antiviolenza della rete DiRe, sparsi in tutta Italia. Una donna in difficoltà può chiamarlo in via confidenziale per sapere a chi rivolgersi vicino a lei. Alcune chiamate, se si ravvisa un pericolo immediato, possono essere dirottate direttamente ai centri, che sono tenuti alla riservatezza professionale e non hanno obbligo di denuncia, che resta una decisione della donna».
Si tratta spesso di donne timorose di uscire allo scoperto. Chi chiama questo numero che risposta deve attendersi?
«La telefonata può essere anche in forma anonima. A meno che non si ravvisi un rischio immediato per l’incolumità della donna, su cui intervenire subito, si cerca di capire la situazione e poi si fissa un appuntamento viso a viso, se la donna lo vuole, per valutare insieme a lei la sua situazione: la condizione in cui vive, come stanno i suoi bambini, i cambiamenti nella sua vita. Molte hanno crisi depressive, lasciano il lavoro, vengono allontanate dalla famiglia d’origine, hanno reazioni da stress cronico. Assieme alla donna si cerca di costruire un percorso mirato: lo si fa insieme a lei, non passando sopra di lei. Spesso si pensa che non serva e invece serve. Le donne ce la fanno, hanno la forza di riprendersi la loro vita».
Quali sono gli strumenti del percorso?
«Consulenze gratuite: legali, psicologiche, consulente per il reinserimento lavorativo. In caso di necessità, rispetto a bisogni specifici, l’attivazione dei servizi sul territorio».
La domanda cruciale che le donne si fanno è: che cosa accadrà ai miei figli?
«Si tratta di bilanciare costi e benefici: esiste per madri e bambini un rischio di impoverimento materiale, ma non si deve dimenticare che bambini che vivono in contesti di violenza domestica, anche senza subirla direttamente, hanno conseguenze alla lunga: vedono lesa l’autorevolezza della mamma che non può scegliere, che deve chiedere il denaro per i beni di prima necessità e i bimbi tendono a colpevolizzarsi, hanno paura di far arrabbiare il babbo».
Nell’immaginario la violenza è fisica. Sottovalutiamo la violenza psicologica?
«La violenza cronica nelle relazioni di fiducia è un insieme di comportamenti che mira a controllare la persona, limitandone la libertà: aggressioni, ricatti emotivi, deprivazione della privacy, della possibilità di vedere i familiari. Le donne pensano di non essere capite, di poter chiedere aiuto solo in caso di aggressione fisica. Non è così».
Quest’anno si è parlato molto di ricatti sul lavoro, a partire dai volti noti del cinema. Dal suo punto di vista questo ha contribuito a far emergere il problema o l’ha banalizzato?
«Tutte e due le cose. Da un lato il fatto che si parlasse di donne in condizioni privilegiate ha fatto prendere un po’ le distanze. Dall’altro però si è preso atto del fatto che è un tema di cui si può parlare: non dimentichiamoci che il lavoro, in tempi di crisi, per donne con figli è fattore di ricatto tra i più diffusi e sommersi».
Abbiamo un problema culturale?
«Sì, abbiamo leggi ottime, ma la cultura non regge il passo, anche tra le donne. Soprattutto per reati che hanno un portato culturale e sociale, servirebbe più attenzione a non colpevolizzare la vittima. Ancora troppe volte anche il processo all’aggressore rischia di produrre vittimizzazione secondaria della donna».
(in alto: un'immagine dall'ultima campagna di Artemisia, #tudachepartestai)