«La mia vita è stata dura, soprattutto
in certi momenti, ma se
mi volto indietro mi dico: “Che
bella vita ho avuto, che bella
esistenza”, perché non mi sono mai annoiato
». Arturo Paoli, 100 anni appena compiuti (l'intervista è di due anni or sono; nato il 30 novembre 1912, Arturo Paoli è morto alle 0,45 del 13 luglio 2015,
ndr.) offre agli ospiti succo di mela e una passeggiata
tra le colline che fanno corona a Lucca.
«Ma dovete stare in silenzio. È il silenzio che
permette di vedere più chiaro quello che è essenziale,
di avere le grandi intuizioni».
E di intuizioni, e di azioni, è intessuto il secolo
di padre Arturo, piccolo fratello di Gesù,
una congregazione ispirata a Charles de Foucauld.
Una vita intensa, passata tra l’esperienza
partigiana, il deserto algerino, l’opposizione
alle dittature sudamericane, il lavoro
con i poveri del barrio Boa Esperança, a Foz
do Iguaçu, al confine tra Argentina e Brasile.
– Un secolo di storia vissuto attivamente.
Qual è il suo segreto?
«Se guardo indietro, devo dire che la sola
scelta che ho fatto per volontà è stata quella
del sacerdozio. Tutto ciò che è accaduto dopo
mi è venuto incontro, era preparato, programmato.
Ho avuto l’impressione che io dovessi
solo dire di sì».
– Lucca la festeggia il 9 dicembre, a San Michele,
la sua parrocchia di nascita. È lì che è
tutto cominciato?
«Direi di sì. Devo molto a Lucca. Mi sono
laureato a Pisa, in Lettere, nel 1936, e poi sono
subito entrato in seminario. Erano gli anni
della guerra e noi a Lucca, per volere del
vescovo, ci siamo dedicati a proteggere gli
ebrei e i perseguitati politici. C’è stata tutta
un’azione di carità che abbiamo vissuto profondamente.
Io ero appena diventato sacerdote
e questa esperienza ha poi ispirato tutta
la mia vita: mi sono dedicato alla gioventù e
ai poveri».
– Com’è nata la sua vocazione?
«Il Signore usa molti avvenimenti: incontrare
la persona adatta, delle delusioni. A me
sono successe tante cose. Una di queste fu la
morte per tubercolosi di una ragazza
dell’Università di Pisa che io amavo. Non dico
che fu la causa essenziale, ma fu un momento
molto drammatico per me».
– E dopo, cosa accadde?
«Divenni sacerdote, partecipai alla Resistenza.
Finita la guerra, il futuro papa Paolo VI,
nel 1949, mi chiamò a Roma come assistente
dei giovani dell’Azione cattolica».
– Erano gli anni dell’operazione Sturzo, con
la Dc pronta ad aprirsi a destra?
«Sì, proprio quelli. Ci opponemmo, con
Carlo Carretto e con altri. Eravamo contrari
ai comitati civici di Luigi Gedda. Alla fine dovetti
lasciare Roma e imbarcarmi come cappellano
sulla nave argentina Corrientes che
trasportava gli emigranti in Sudamerica. Lì
incontrai un piccolo fratello di Gesù ed entrai
nel noviziato della congregazione che
s’ispira a Charles de Foucauld».
– Così andò in Algeria...
«Non fu semplice entrare tra i Piccoli fratelli.
Il maestro dei novizi, un grande uomo che
non dimenticherò mai, vedendo che venivo
da una vita molto intensa perché avevo scritto
libri, perché vivevo in mezzo ai giovani,
evitò di ricevermi per un bel po’. Diceva che
era una congregazione povera, ispirata alla
spiritualità francescana. Alla fine si decise
ma a condizione che io evitassi di leggere
qualunque libro. Mi trovai completamente
spiazzato, senza le mie abitudini. Mi venne
incontro il deserto con le sue albe, le sue bellezze.
Ma fu un anno duro. Non tanto per le
condizioni di vita, che sono quelle della gente
di lì, dei beduini, dei poveri. Sopportavo
molto facilmente il dormire in modo scomodo,
le privazioni. Quello che, invece, mi faceva
soffrire terribilmente era questo spogliamento
totale. Per mesi eri solo con le tue domande:
perché vivere? Per chi vivere? Alla fine
si faceva un pellegrinaggio di 600 chilometri
o poco più da El Abiodh a Béni Abbès, dove
visse Charles de Foucauld. Eravamo un
bel gruppo di fratelli, c’erano i cammelli, la
mattina si partiva con una colazione frugale
e le tasche piene di datteri che mangiavamo
durante il tragitto».
– Lasciata l’Algeria tornò in Italia, tra i minatori
della Sardegna. Poi, di nuovo, andò all’estero, tra i poveri del Sudamerica. Dopo
il colpo di stato di Pinochet, in Cile, e durante
la dittura militare di Videla, in Argentina,
il suo nome comparve sui muri di Buenos Aires
al secondo posto nella lista delle persone
da eliminare. Ha avuto paura?
«Certo, la paura c’era, bisognava nascondersi.
Ma quelli non sono stati gli anni peggiori.
Gli anni peggiori credo che siano questi.
Allora si diceva che sarebbe arrivato il dominio
del capitale e oggi sta accadendo esattamente
questo. Non c’è più speranza, ai giovani
si offre il vuoto, il nulla. La generazione
degli adulti è in decadenza, ma non riesce a
farsi da parte. Ruba il futuro ai nostri giovani.
Questo è il periodo storico peggiore perché
non si vedono prospettive. Tutto è sacrificato
al denaro, al consumismo, ai beni materiali.
Ma se c’è una cosa che Gesù ha detto
chiaramente, in modo incontrovertibile, preciso,
assoluto, è che il grande nemico, l’avversario
con il quale non potrà mai scendere a
patti è il denaro, mammona. E oggi vediamo mammona che trionfa. E anche la Chiesa che
scende a patti».
– Cosa vorrebbe di più come regalo di compleanno?
«Che risorgesse la gioventù. Ho dedicato la
vita ai giovani. E ancora adesso sono qui, a loro
disposizione per i giorni, o gli anni, che
verranno. Ho avuto la grande fortuna di incontrare
Giorgio La Pira, di ascoltarlo, di frequentarlo.
Tra le tante persone che hanno segnato
la mia vita – Carlo Carretto, Giuseppe
Dossetti, Pietro Pfanner – vorrei ricordare
proprio lui perché ha guidato i primi passi
della mia vita spirituale. Non è che mi facesse
da “padre”, ma mi ha molto segnato il sentirlo
parlare, la gioia che esprimeva, il modo
in cui riusciva a entusiasmare. Ecco, io vorrei
che i giovani possano tornare a entusiasmarsi
come la mia generazione».
– Da dove attingere questo entusiasmo?
«Certo, non si possono entusiasmare con il
nulla, con il vuoto che gli proponiamo, con
gli egoismi della nostra generazione. Si parla
della morte del padre, che significa la morte
dell’adulto. Oggi abbiamo perso la sensibilità,
la responsabilità degli altri, non ci sentiamo
più coeducatori, non scommettiamo più
sui giovani come forza rinnovatrice del Paese.
Lasciamo che se ne vadano, non li curiamo.
Per il mio compleanno vorrei che si spezzasse
questo egoismo e si tornasse alla vita, a
Gesù, ideale dei giovani e di questo mondo».