Saleem Abboud Ashkar durante il concerto al Conservatorio di Milano.
A Milano in molti ricordano quando, nel 2004, si esibì con la Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Muti nel Concerto per due pianoforti di Mozart insieme al pianista Itamar Golan. Lui, Saleem Abboud Ashkar, palestinese di Nazareth, al fianco di un collega israeliano. A dimostrazione che la potenza della musica oltrepassa ogni barriera culturale e politica. Il 1° marzo il 34 enne Ashkar - che collabora stabilmente con l'Israel philarmonic orchestra e la Jerusalem symphony e, fra gli altri, con i maestri Daniel Barenboim e Zubin Metha - è tornato a Milano, per suonare Bach, Schubert e Brahms al Conservatorio, ospite della Società del Quartetto di Milano.
Ha cominciato la carriera musicale da giovanissimo, tanto che a soli 17 anni il maestro Zubin Metha l'ha chiamato a suonare con l'Orchestra filarmonica di Israele. Potremmo definirla un ex bambino prodigio...
«In realtà non mi sono mai sentito un bambino prodigio, non credo di avere un particolare talento. Semplicemente ho sempre avuto una profonda forza d'animo e una volontà di ferro. Fin da piccolo ho sempre lavorato sodo, ho lottato giorno dopo giorno per migliorarmi. Provengo da una situazione sociale difficile, da una terra che non ha alcuna tradizione di musica classica. Se non avessi lottato non sarei riuscito ad arrivare dove sono oggi».
In una terra senza tradizione musicale classica, come è nata quindi la sua passione?
«E' stato il caso, pura fortuna. Da bambino ho scoperto il pianoforte e mi sono innamorato. Non sono stato incoraggiato da nessuno».
Quando ha deciso che la musica sarebbe diventata la sua professione?
«Può sembrare strano, ma fin dall'inizio, appena ho cominciato a suonare. A 7, 8 anni, se mi chiedevano cosa volevo fare da grande io rispondevo il pianista. E non ho mai cambiato idea. Ho cominciato a studiare a Nazareth, poi sono andato a Londra a 13 anni, ma ero troppo giovane ed è stato un disastro, ritrovarmi da solo a quell'età. In seguito sono tornato nella mia terra, ho studiato a Gerusalemme e verso i 17 anni, quando ero più maturo, sono partito di nuovo, prima Londra, poi la Germania. Sono andato a vivere a Berlino, dove vivo ancora oggi, la città ideale per la musica classica».
Ha suonato spesso in Italia, sotto la direzione di maestri come Riccardo Muti e Riccardo Chailly. Che rapporto ha con il nostro Paese?
«Ho una grande ammirazione per i musicisti italiani, Muti, Chailly, ma anche Pollini, Abbado e altri. Ho imparato tanto da loro, anche da quelli con i quali non ho suonato. Trovo sorprendente l'alchimia che si crea quando i musicisti italiani incontrano la cultura tedesca. Nell'incrocio di queste due tradizioni, italiana e germanica, viene fuori un connubio perfetto. E poi, non voglio fare il sentimentale, ma per una persona mediterranea come me che vive in una società nordica come quella tedesca, venire in Italia è un po' come ritrovarsi a casa, in un ambiente familiare. Tutte le volte che mi sposto verso una zona mediterranea mi sento più a casa. Italia e Medio oriente hanno tante somiglianze».
Oggi fra molti musicisti c'è la tendenza a mescolare musica classica, pop e jazz. Cosa ne pensa?
«Non ho niente contro il pop o il jazz. Ma i diversi generi, classica, pop, jazz, hanno diverse funzioni e servono a diversi scopi. E' un po' come leggere un capolavoro della letteratura e una rivista di fumetti. E' giusto leggere entrambi, ma si tratta di cose totalmente diverse. L'intento di mescolare la classica con il pop mira ad attrarre il pubblico giovane. Ma secondo me è sbagliato. Primo: anche i giovani diventerenno anziani. E poi, confondere la classica con altri generi è una falsa promessa: serve solo a nascondere la realtà, l'essenza più vera e profonda della musica classica. Pensare che Mozaet o Bach siano elitari è sbagliato. Vorrei che si riuscisse a attrarre il pubblico verso questi grandi musicisti per come sono veramente, nella loro essenza. Questo, certo, comporta uno sforzo maggiore e un lavoro più duro sulla mentalità diffusa e il sistema culturale».
Guardando alla tua terra d'origine, la Palestina, e ai grandi eventi rivoluzionari nel Maghreb, cosa pensa della situazione attuale del mondo arabo?
«Le rivoluzioni che stanno avvenendo in vari Paesi, dall'Egitto alla Libia, sono qualcosa di veramente emozionante. Sono stato sempre molto critico verso la società araba, che ho sempre giudicato troppo statica, monolotica. E adesso, tutto a un tratto, è diventata così dinamica. Certo, nella storia il dinamismo non sempre ha portato cambiamenti positivi, pensiamo ad esempio all'Iran. Quindi, in questo momento provo due sentimenti opposti: il cuore prova grande emozione, la testa mi dice che dobbiamo stare attenti perché la situazione presenta dei pericoli. Adesso nessuno può prevedere cosa accadrà ma, comunque vadano le cose, questo cambiamento doveva succedere. Quanto al conflitto israelo-palestinese, sono pessimista, non vedo una prospettiva positiva. Entrambe le società negli ultimi anni si sono mosse verso posizioni più estreme, sono diventate più integraliste. Vent'anni fa nella società palestinese il fondamentalismo religioso non esisteva e in Israele dominava la sinistra. La situazione è cambiata, ma in peggio».
Non pensa che il cambiamento più generale nel mondo arabo avrà ripercussioni anche sulla particolare questione israelo-palestinese?
«Sì, certo, sono sicuro che questo accadrà. Cambierà il ruolo degli Stati Uniti nel mondo arabo, cambieranno i rapporti dei Paesi arabi con l'Europa. Ma chiunque al momento pretende di dire come cambierà la situazione mediorientale mente. La società palestinese e quella israeliana stanno cambiando nella loro natura: questo è il vero grande pericolo».