Non ci sono tanti modi per dirlo: dopo un decennio in cui i partiti della destra euroscettica o antieuropeista hanno dominato la scena, ci si ritrova a Roma (Monti, la Merkel, Hollande e Rajoy) e ci si ritroverà tra pochi giorni a Bruxelles sospirando quanto si sa da sempre: ci sarebbe voluta, ci vorrebbe e senz'altro ci vorrà una maggiore integrazione politica all'interno dell'Unione Europea.
E' la scoperta dell'acqua calda ma resta una scoperta, almeno per un'Italia in cui Silvio Berlusconi, l'uomo che si considera il "leader dei moderati", un giorno vorrebbe stampare euro con la zecca e l'altro chiede l'uscita della Germania dall'euro; mentre Beppe Grillo, il nuovo che avanza, vorrebbe addirittura che uscissimo noi dall'euro. Il tutto mentre sia i greci sia gli irlandesi (gli uni con il recentissimo voto politico, gli altri con il referendum che ha detto "sì" al Fiscal Compact), cioè i popoli che hanno potuto esprimersi direttamente, hanno chiesto ai loro politici di fare di tutto tranne che abbandonare la moneta unica.
Già vent'anni fa era evidente che, in un mondo di colossi come Usa, Cina, Russia, India, e di Paesi rampanti come mai nella storia (Brasile, Iran, Sudafrica, Israele), sarebbe stato necessario unirsi e integrarsi per mantenere certe posizioni. O anche solo per difendersi dalle turbolenze di un equilibrio planetario in radicale trasformazione: come ben ricorda il professor Moro in uno degli articoli di questo dossier, quest'ultima crisi non è nata in Europa ma negli Usa, con la folle politica del credito sulla bolla immobiliare perseguita dall'amministrazione Bush.
Integrarsi, però, è come fare la coda alla fermata dell'autobus: bisogna accettare di rimetterci individualmente per guadagnarci collettivamente. In altre parole: una sola moneta, sì, ma anche una sola politica finanziaria decisa da una sola banca centrale; un solo esercito; una sola politica estera; un vero governo europeo.
Banale ma finora impossibile. La "casta" l'abbiamo noi come gli altri. E in qualche modo lo ha dimostrato, anche durante il summit di Londra, il presidente francese Franḉois Hollande. Parlare a un francese di "cessione di sovranità" è sempre un azzardo, ma demoralizza sentire il nuovo Presidente ripetere la vecchia litania: "Sì a trasferimenti di sovranità solo se si migliora sul piano della solidarietà".
Che vuol dire? Se la Germania apre i cordoni della borsa, accetteremo una direzione bancaria centralizzata? Come si può non capire che è proprio la mancata integrazione (cioè, il tanto temuto e mai realizzato "trasferimento di sovranità") a impedire una vera solidarietà tra i Paesi europei? E che finché non ci sarà più integrazione non ci sarà nemmeno più solidarietà? Che finché non ci sarà un vero Governo dell'Europa ci sarà sempre una signora Merkel a fare in modo inflessibile gli interessi del proprio Governo, del proprio Stato e del proprio popolo?
In questo campo, e bene ha fatto il premier Monti a ricordarlo, nessuno può far la predica agli altri. Nemmeno la Germania, che nel 2003 denunciò sul 2002 un disavanzo di bilancio pari al 3,6% del Pil, in violazione dei trattati liberamente sottoscritti. Resta da vedere quanti altri disoccupati, giovani senza futuro, esodati e artigiani suicidi dovremo registrare prima di accettare l'inevitabile realtà degli Stati Uniti d'Europa.
Fulvio Scaglione
Il dibattito di questi mesi intorno
alla crisi dell’Euro ha immaginato possibili e imminenti uscite dall’euro senza tener conto di un
piccolo particolare (i Trattati europei
prevedono l ‘ingresso nel sistema euro, ma non l’uscita) e senza
contare che le Banche centrali di Grecia o Italia dovrebbero tornare
a battere moneta, attività abbandonata da 12 anni.
Analoga leggerezza è stata usata per
il voto greco. I vincitori della destra di Nuova Democrazia
favorevoli all’euro contro la nuova formazione Syriza per il
ritorno alla dracma. Peccato che Syriza non abbia mai proposto
l’uscita dall’euro, ma la necessità di rivedere il memorandum
firmato con l’Ue, chiedendo flessibilità e tempo, esattamente
quanto ha fatto il nuovo Governo di coalizione appena formato.
Ma se il dibattito si avvelena fuori
misura, qual è il nodo reale che riduce oggi il fiato dell’Europa?
L’Unione non ha creato la crisi, nata soprattutto negli Stati
Uniti con i prestiti irresponsabili erogati sulla bolla immobiliare.
L’Europa ha subito la crisi e ha reagito utilizzando gli strumenti
di protezione sociale di cui è dotata per ridurne i costi sociali.
In una fase di crisi si riduce la raccolta fiscale e aumenta la spesa
sociale, in modo automatico (sussidi, cassa integrazione etc). Per
sostenerla. i Paesi europei hanno acceso nuovi prestiti: la fase di
ripresa che segue le crisi, stimolata dagli interventi di sostegno al
reddito e alla domanda, avrebbe comportato ripresa dell’occupazione
e della raccolta fiscale e restituzione dei debiti creati nel
frattempo.
Un processo del tutto sensato, che avrebbe probabilmente
comportato tempi più rapidi di uscita della crisi rispetto a quelli
Usa, se i Paesi europei si fossero mostrati solidali e, soprattutto,
politicamente solidi.
Il Governo tedesco però ha rotto
l’unità affermando che non avrebbe sostenuto le difficoltà
finanziarie dei Paesi più deboli. Gli speculatori hanno
immediatamente attaccato i Paesi considerati più vulnerabili: la
Grecia per i conti falsi (creati proprio dal governo di Nuova
Democrazia e denunciati da Papandreu nel 2009 appena divenuto
premier), l’Irlanda per la debolezza del sistema bancario, la
Spagna per una bolla immobiliare e finanziaria analoga a quella Usa e
l’Italia per la non credibilità del Governo guidato da Berlusconi.
La fama negativa, amplificata ad arte,
scoraggiava i risparmiatori, i Governi erano costretti a promettere
tassi di interesse sempre più alti (ecco l’aumento dello spread) e
i titoli venivano acquistati proprio dagli speculatori che ne
sconsigliavano pubblicamente l’acquisto mentre privatamente
contavano proprio sulla solidarietà europea.
I veti tedeschi non fanno che aumentare
tempi e interessi, rendendo la speculazione sempre più remunerativa,
perché – è ovvio - prima o poi l’Europa interverrà.
Far
aumentare ulteriormente la crisi greca o di altri Paesi o,
addirittura, arrivare ad un’Europa in crisi e senza euro
significherebbe determinare forti perdite di potere d’acquisto in
tutta l’area, con conseguenze negative per tutti coloro che in
Europa vendono i loro prodotti, Cina in testa, o le loro materie
prime. Per non parlare dei danni che subirebbe la stessa Germania che
all’Unione destina la metà delle proprie esportazioni.
Sostenere il sistema euro significa
allora mettersi nelle condizioni di pagare con credibilità i debiti
contratti da parte di tutti i Paesi. Oggi questo significa dotarsi
di strumenti istituzionali per farlo, senza dover costruire soluzioni
ad hoc ogni volta che compare l’esigenza per ogni singolo paese.
Farlo nel 2009, quando il Governo greco lanciò il primo appello,
sarebbe costato intorno ai 40 miliardi di euro e avrebbe dato da
parte dell’Europa un segnale di autorevolezza che avrebbe tolto
spazio alle azioni speculative. Farlo oggi, come si sta
effettivamente facendo, ha lasciato mani libere agli speculatori e
costerà probabilmente 800 miliardi, alcune stime parlano addirittura
di mille miliardi di euro.
Perché non si è fatto prima? A causa della resistenza di Angela Merkel che ha sempre rifiutato una solidarietà europea. La Cancelliera tedesca ha da due anni sistematicamente rifiutato una solidarietà con i Paesi europei in difficoltà motivando la sua posizione eticamente: le rigorose formiche tedesche non devono pagare per le cicale spendaccione dell’Europa meridionale che si sono indebitate. Più recentemente ha accettato un piano di aiuti ricordando in modo arrogante che se i mediterranei vorranno una mano dovranno sottoporsi a politiche di bilancio improntate al rigore e controllate dall’Europa. Sono nati così i diktat alla Grecia, che hanno imposto tagli alla spesa senza gradualità e hanno aggravato la situazione economica anziché migliorarla, col risultato di indebolire la credibilità dell’intero sistema Europa, offrendo ulteriore spazio agli speculatori.
La posizione della Merkel si fondava sulla presunta autorevolezza della Germania, Paese europeo con i migliori tassi di crescita, con le performance economiche tedesche a dare una legittimazione etica e politica alle posizioni del Governo tedesco. Peccato che la crescita tedesca derivi soprattutto dalle esportazioni verso le aree che oggi hanno i trend economici più dinamici: Cina e America Latina, che in questa particolare fase storica domandano i prodotti in cui la Germania è leader, cioè macchine industriali. Così, con la perdita di autorevolezza europea e la conseguente caduta dell’euro, la Germania trae vantaggio per le sue esportazioni, sostenendo grazie ad esse il proprio Pil che altrimenti non avrebbe avuto performances diverse da quelle della Francia e degli altri Paesi europei.
Si tratta di una posizione piuttosto trasparente che non per nulla ha prodotto un malcontento sempre maggiore da parte di tutti partner, culminato nel vertice del G20 che si è concluso con un documento in cui è del tutto evidente, al di là del linguaggio diplomatico, l’isolamento del leader tedesco, non sostenuto nemmeno più dalla Cina, l’unico Paese che sinora nel G20 le aveva mostrato solidarietà. La posizione di Angela Merkel si giustifica solo per ragioni elettorali, immaginando di interpretare la ‘pancia’ più emotiva del popolo tedesco per ottenere la rielezione. In realtà gli elettori tedeschi sembrano più europeisti di quanto non valuti il loro Capo del Governo. In tutte le elezioni regionali di questi due anni i partiti di governo hanno subito pesanti sconfitte e non sembra che un mostrarsi a braccia alzate per i goal che la nazionale tedesca infligge proprio alla Grecia possano rendere la Cancelliera più popolare.
Che cosa occorre per uscire da questo stallo? Prima di tutto una istituzione in grado di intervenire automaticamente in caso di difficoltà per finanziare a sostenere i paesi membri. Dopo un primo tentativo con il Fondo di stabilità finanziaria europea, il meccanismo vedrà la luce al Consiglio Europeo del 28 29 giugno, ma occorre che venga finanziato e su questo non c’è ancora totale intesa.
Quindi occorre una intesa fiscale, per concertare le politiche di spesa in modo da consentire contributi convinti da parte di tutti al meccanismo di stabilità. Questo è l’unico punto su cui la Merkel ha ragione, ma è necessario che i punti di intesa del cosiddetto fiscal compact siano improntai allo sviluppo, alla ripresa di una domanda che crei lavoro per tutti, e non esclusivamente al contenimento della spesa pubblica in una logica miope di breve periodo che crea maggiori difficoltà anziché risolverle. In terzo luogo la tassa sulle transazioni finanziarie, la cosiddetta Tobin Tax, che può raccogliere molte risorse e raffreddare i movimenti speculativi. La si applichi anche se la Gran Bretagna non è d’accordo. Si guadagnerà in credibilità politica e si disporrà di risorse da spendere per la stabilità finanziaria, lo sviluppo e la solidarietà internazionale.
Quarto ambito di intesa è l’emissione di Eurobond, titoli pubblici dell’Unione per finanziarne le spese, comprese quelle per garantire la stabilità finanziaria. Emetterli, ancora una volta, sarebbe segnale di solidità da parte dell’Unione e i mercati reagirebbero bene. La Merkel, ormai isolata, insiste nel suo veto, screditando con le sue parole insieme la proposta e la autorevolezza europea. Quinto spazio di intervento è la regolamentazione bancaria, che da nazionale diventi europea per dare uniformità alle possibilità di azione e comportamento degli attori bancari che operano sui mercati europei, evitando leggerezze, come è avvenuto in Spagna (ma anche in alcune banche regionali tedesche) , che indeboliscono non solo chi agisce in modo spregiudicato, ma l’intero sistema.
Dal Consiglio Europeo di Bruxelles si attendono queste risposte. Fare i duri e non arrivare ad un accordo, o farlo puntando il dito contro le cicale, imponendo visioni retoriche e nazionali significherà rendere ancora più alto il costo che insieme dovremo pagare. Potrebbe anche capitare che la Grecia spazientita decida davvero di tornare alla dracma. Subirebbe una svalutazione pesantissima che renderebbe prodotti e servizi greci golosamente convenienti. Hotel e spiagge dell’Egeo si riempirebbero di turisti che porterebbero i dollari e gli euro che l’Europa oggi nega. Il Paese, che è piccolo e ha una fortissima vocazione turistica, in pochi anni si riprenderebbe, mentre l’Europa perderebbe ogni credibilità imboccando un vicolo cieco in cui il più forte subirà il danno maggiore. E’ uno scenario che gli elettori tedeschi sembrano avere già compreso. Speriamo convincano il loro Capo del Governo.
Riccardo Moro, economista, docente di Politiche dello sviluppo all'Università statale di Milano
Un francese, un tedesco, un italiano. Tre uomini di frontiera. Tre perseguitati dal nazifascismo. Tre statisti. Tre cristiani. A far compiere all'Europa i primi passi verso l'unità sono Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi.
Schuman nasce in Lussemburgo, studia in Germania, ha la cittadinanza tedesca fino al termine della Prima guerra mondiale, quando la Lorena - la terra natale di suo padre - torna alla Francia: e in Francia diventa deputato e ministro. Egli stesso interpreta come segni premonitori la sua data di nascita - il 29 giugno 1886, festa di San Pietro - ed il luogo di nascita - Clausen, nome che deriva dal latino chiostro - sobborgo della città di Lussemburgo. Nel 1912 comincia l'attività forense e apre il suo studio d'avvocato nella città di Metz. Si sforza di vivere con coerenza i valori evangelici nella sua vita professionale: abbassa, ad esempio, le tariffe per far sì che anche i meno abbienti possano godere dell'assistenza legale; ciò gli attira l'antipatia di alcuni colleghi. Eletto per la prima volta deputato nel 1919, a 33 anni, Robert Schuman verrà sempre riconfermato nell'incarico - tranne durante il periodo della Seconda guerra mondiale - fino al 1962 quando, troppo malato per ripresentarsi alle elezioni legislative, deciderà di ritirarsi a Scy-Chazelles, alla periferia di Metz, dove morirà il 4 settembre 1963.
Schuman sogna la riconciliazione piena tra i popoli europei e la pace per il Vecchio Continente. Lo fa anche durante gli anni bui dei due conflitti mondiali, soprattutto del secondo, durante il quale, il 14 settembre 1940, viene catturato dalla Gestapo e destinato al carcere duro, chiuso in una cella d'isolamento.
Robert Schuman riesce a sopravvivere. Tendere la mano ai nemici sconfitti, far sì che la Germania non venga frazionata in tanti piccoli staterelli e umiliata oltre misura, ma - soprattutto - mettere in comune le basi dell'economia industriale di allora: è il piano di Schuman ispirato da Jean Monnet che genera la Ceca, la Comunità economica del carbone e dell'acciaio, primo nucleo dell'Unione europea.
C'è una data storica. E' il 9 maggio 1950. Robert Schuman è ministro degli Esteri del Governo Bidault. A Parigi è convocato il Consiglio dei ministri. Schuman vuole presentare il suo Piano ma sa anche che l'ostilità antitedesca è ancora molto forte in Francia e dunque teme che il suo piano venga bocciato. Da politico lungimirante, decide che prima di proporre il progetto della "Comunità del carbone e delll'acciaio" al Consiglio dei ministri francese, ha bisogno di avere il consenso preventivo della Germania, così affida ad un collaboratore di fiducia una lettera da portare al Cancelliere Konrad Adenauer. Costui, letta la missiva, chiama telefonicamente Schumann, durante la seduta del Consiglio dei ministri francese, e annuncia l'assenso al progetto della Ceca da parte della Germania Federale.
Tra i membri del Governo solo due ministri fidati, René Mayer e René Pleven, sono messi al corrente da Schuman delle sue intenzioni. Verso la fine del Consiglio, quando i ministri sono ormai stanchi e distratti, Schuman legge la dichiarazione che ha preparato e che illustra il progetto "Comunità del carbone e dell'acciaio", chiedendo che venga approvata questo nucleo embrionale di Europa unita. Il Presidente del Consiglio, Georges Bidault, si rivolge agli altri ministri sollecitando un loro parere. Come concordato, prendono subito la parola sia Mayer che Pleven che perorano la causa della "Comunità del carbone e dell'acciaio", insistendo per la sua adozione immediata. Il Presidente Bidault non si oppone ed il progetto viene approvato.
Mentre al Quai d'Orsay, la "Farnesina" di Parigi, si preparano sala, tavoli, sedie e microfoni per la conferenza stampa convocata per rendere di dominio pubblico l'adozione del nuovo progetto, la Germania Federale annuncia la sua adesione al Consiglio d'Europa. Schuman legge la sua dichiarazione: «La pace mondiale non potrebbe essere salvaguardata senza sforzi proporzionali ai pericoli che la minacciano. L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. La fusione delle produzioni di carbone e di acciaio cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime».
Non a caso l'Europa festeggia con orgoglio se stessa il 9 maggio. Quel giorno, nel 1950, Alcide De Gasperi viene informato del progetto dall'ambasciatore italiano a Parigi, Pietro Quaroni. Ill giorno dopo comunica l'adesione da parte dell'Italia al progetto della Ceca, aprendo in tal modo la strada alle adesioni successive di Belgio, Olanda e Lussemburgo.
Con Konrad Adenauer (1876-1967) e con Alcide De Gasperi (1881-1954), Robert Schuman ha in comune, oltre ad un'intensa, vissuta fede cristiana, anche la circostanza di essere un uomo provenienti da regioni di confine, la cui formazione culturale si sviluppa tra Paesi di lingua e costumi diversi. I tre statisti sono dotati di una sorta di connaturata propensione al dialogo ed all’incontro. Sono uomini che vivono con sobrietà e rigore. Sanno ascoltare. Sono loro i padri dell'Europa.
Alberto Chiara