«Mi scusi, ma proprio ora
dobbiamo ricordare le
vittime con un minuto
di silenzio. Può richiamare
tra un po’?».
Quando risponde di nuovo al telefono,
Annalisa Gadaleta dice che «in
questi giorni ci ripetiamo che dobbiamo
andare avanti. Ma così non
ci diamo il tempo per pensare a
quanto è successo. Questi attimi di
riflessione sono quindi per me molto
preziosi». Sposata e con due figlie di 17
e 13 anni, venerdì 19 marzo si trovava
in una scuola materna ed elementare.
«Le lezioni erano finite, i bambini
stavano giocando, quando abbiamo
visto uomini armati con i passamontagna
irrompere nel cortile:
erano le teste di cuoio che stavano
andando a catturare Salah Abdeslam.
L’appartamento dove si nascondeva
era proprio alle spalle della scuola».
Solo tre giorni dopo, martedì 22, un
altro trauma: gli attentati all’aeroporto
e in metropolitana. «Ero a scuola pure
quella mattina. I bambini erano ancora
terrorizzati e molti avevano avuto gli
incubi. Così avevamo organizzato un
incontro con i genitori per parlarne».
Tutto è stato spazzato via dalle notizie
delle esplosioni. «Anche mio marito in
quel momento si trovava in metropolitana,
ma per fortuna in un punto lontano
da quello dell’attentato».
Così bisogna ripartire di nuovo.
«Stamattina qui è tornato il mercato,
ma c’era molta meno gente del solito».
In questo sobborgo di Bruxelles, su 100
mila residenti oltre il 40% sono musulmani.
Durante l’arresto di Salah,
che a Molenbeek è nato e cresciuto, le
Tv hanno ripreso alcuni abitanti scagliare
pietre e bottiglie contro le forze
dell’ordine: «Molti erano delinquenti
comuni che avevano conti da regolare
con i poliziotti. E stiamo comunque
parlando di un centinaio di persone su
una popolazione di 30 mila giovani»,
precisa l’assessore. «Detto questo, il
problema esiste e da tanto tempo».
Da almeno 15 anni: proprio da Molenbeek
nel 2001 partirono i killer del
comandante Massoud che combatteva
in Afghanistan contro i talebani.
«Le passate amministrazioni hanno
chiuso gli occhi su quanto stava accadendo
e ora la situazione è simile a
quella di realtà italiane in mano alla
criminalità organizzata: alta densità
di popolazione omogenea per cultura,
il che rende difficile i controlli, e
omertà diffusa, in un contesto di forte
disagio sociale: siamo il secondo Comune
più povero del Belgio, e la disoccupazione
tra i giovani arriva al 50%».
«SECONDA GENERAZIONE CONFUSA».
E
tuttavia Salah proviene da una famiglia
benestante, così come molti suoi
coetanei che si arruolano nell’Isis.
«Mentre i genitori pensavano solo a
lavorare con l’idea di ritornare nel loro
Paese, questi giovani avrebbero voluto
integrarsi, ma noi non siamo riusciti
a trasmettere i nostri valori. Gli insegnanti
non erano preparati a educarli
alla democrazia. Così sono cresciuti
confusi, finché in questa ricerca di
un’identità non hanno trovato su Internet
qualcuno che gli ha indicato una
strada: il fondamentalismo».
La radicalizzazione riguarda anche
le donne: «L’anno scorso una madre
con i suoi figli è partita per la Siria e da
allora non sappiamo più nulla di loro.
Eppure le donne rappresentano per
me la chiave per venire fuori da tutto
questo. C’è un dato che accomuna tanti
giovani partiti da qui per arruolarsi
nell’Isis: l’assenza della figura paterna.
Le madri si fanno carico di tutto, anche
dell’educazione, ed è quindi necessario
aiutarle a proteggere i figli dalla
propaganda dei terroristi».
«Tanto più che le donne islamiche
sono le più determinate a cambiare le
cose», aggiunge l’assessore. «Dopo gli
attentati di Parigi sono state loro a organizzare
la prima manifestazione. Ho
tante amiche volontarie che portano
il velo e che cucinano per la scuola. In
questi giorni ho ripensato a quanto
ripetevano Falcone e Borsellino: la repressione
è fondamentale per sconfiggere
la mafia, ma lo è ancor di più
l’educazione. Vale anche qui: dobbiamo
puntare su scuola e famiglie».