“Quanto accaduto in Canada non mi stupisce, essendo questo uno dei Paesi coinvolti nella coalizione anti-Isis e perciò sotto ricatto di attentati. Casomai mi stupisce che non si siano presi sul serio gli allarmi e le analisi degli esperti che da tempo mettevano in guardia dalla pericolosità di questo fenomeno, che per molti aspetti è nuovo”. Esordisce così Khaled Fouad Allam, insigne islamista ed esperto di rapporti tra occidente e Medio Oriente, già autore di molti saggi sul tema.
E’ in uscita nei prossimi giorni il suo ultimo libro “Il Jihadista della porta accanto” (Piemme), che cerca di fare luce su questa nuova forma di totalitarismo che si muove nella globalizzazione.
“Il terrorismo dell’Isis non ha nulla a che fare con i fenomeni terroristici della fine del ‘900 e di questi ultimi anni, come ad esempio le Br italiane o la Rote Armee Fraktion tedesca. Questo è basato sulla destabilizzazione: vuole, cioè, creare con gli attentati e le decapitazioni in tv la paura assoluta, che metta a sua volta in moto un sistema di sicurezza così imponente e ossessivo da creare un’ansia sul piano mondiale, in altre parole mettere fine alla vita”.
In una nuova mossa di propaganda, lo Stato islamico ha diffuso un nuovo video, di 52 secondi, dal titolo Flames of War (Fiamme di Guerra), in cui in un montaggio dal ritmo serrato si vedono immagini di esplosioni, anche in slow motion, di miliziani che sparano con fucili automatici, pistole e armi anticarro (Ansa).
Come sceglie gli obiettivi l'Isis?
“Seleziona in base a due modalità: o luoghi simbolici, come la sede del parlamento, vedi l’attentato di ieri in Canada, luogo quasi sacro per una democrazia occidentale, o luoghi in cui si radunano grandi folle, dove la paura causa effetti esponenziali”.
-Ma chi sono gli jihadisti "della porta accanto"? Che caratteristiche hanno i giovani che si arruolano tra le fila del sedicente stato islamico?
“Chiunque, islamico d’origine o convertito, magari sprovvisto di bagaglio culturale, sia caduto nelle trappole dei cattivi maestri. Perciò difficili da identificare anche perché adotta particolari tecniche di nascondimento. Ecco perché la prevenzione è assai più difficoltosa rispetto a quella che si faceva coi terroristi ‘classici’. Due sono le tipologie di aderenti: la prima a cui faceva parte ad esempio Khaled Kelkal, il cosiddetto primo jihadista europeo, quel ragazzo franco-algerino giustiziato vicino a Lione dai gendarmi francesi, nel lontano 1995. Era un giovane che si era ri-islamizzato in prigione.
La seconda tipologia è il giovane che è del tutto integrato, con lavoro, titolo di studio, che si avvicina, grazie alla rete, alla cultura fondamentalista, cade nella trappola e diventa seguace di una logica eversiva. Internet in questo senso è un pericolo se non governato, perché isola e indebolisce con la solitudine l’analisi critica. Si entra in nuovo mondo, parallelo, privo di legami con la realtà”.
- Ma perché attecchisce nella nostra società questo pensiero eversivo?
“Non c’è mai un solo fattore generante. Certo che la crisi economica può influire, ma non mi sembra decisiva. Tutto parte dalla caduta del Muro di Berlino, dalla crisi delle grandi ideologie e la fine delle utopie collettive. A questi ragazzi l’islam politico può apparire, nel vuoto ideologico creatosi quasi trent’anni fa, come una nuova forma di utopia e speranza collettiva.
-Eravamo alcuni anni dopo la rivoluzione khomeinista…
“Esatto. A partire da quella rivoluzione del ’79, l’islam politico ha lavorato contro tutto ciò che è di matrice occidentale, ad iniziare dalle società democratiche. La democrazia è considerata ‘immondizia occidentale’, da cui allontanarsi, per tornare alla purezza delel origini. Attenzione che non a caso il testo del califfato si chiama ‘La promessa di Allah'”.
-Perché, secondo lei, lo jihadismo è assai più pericoloso del fondamentalismo talebano e del movimento di Al Qaeda?
“Perché l’Isis è riuscito dove hanno fallito gli altri in questi trent’anni. Sono riusciti a mettere insieme, anzitutto, gran parte dei movimenti fondamentalisti islamici, e poi hanno risolto l’equazione più difficile: transitare dalla contestazione all’istituzione. L’Isis è un califfato, è uno stato a tutti gli effetti, sebbene non riconosciuto dalla comunità internazionale. E uno stato vuol dire tante cose: un esercito, diversamente da Al Qaeda, un perimetro in estensione, una struttura".
- La strategia di contrasto solo con i bombardamenti aerei non pare bastare…
“No, è necessaria la guerra tradizionale, cioè soldati che combattano strada per strada. Quello che stanno facendo i curdi ora. Bombardare sarebbe come se avessimo tentato di contrastare l’avanzata del nazismo soltanto con i droni”.
-Ma gli stati occidentali hanno smesso da tempo di fare la guerra tradizionale.
“Però, citando un verso di Holderlin, “là dove cresce il pericolo, cresce la salvezza”. Ma quel che serve di più, oggi, è un dialogo su basi nuove tra Islam e occidente. E’ un lavoro lungo, ma decisivo. Ne va dei futuri equilibri sociali, anche perché l’islam non è più lontano, ma è dentro le nostre società, i nostri paesi. Non è più ipotizzabile un atteggiamento e scelte politiche alla Isabella di Castiglia. E importante è aiutare chi nel mondo musulmano è pronto a condividere la democrazia e battersi per questi valori che sono universali. Ma bisogna aiutare tali intellettuali e non silenziarli come si sta facendo oggi”.
- Non le pare che la politica ascolti poco queste voci e gli esperti che da tempo hanno lanciato l'allarme Isis?
“Mi sembra evidente. Sta accadendo quello che s’è verificato con la questione ambientale. Per tanti anni la politica ha negato l’effetto serra, per poi accorgersi che gli esperti avevano ragione e c’era poco tempo per rimediare. E io... mi sento un po’ come Cassandra”.