«Che cosa rappresenta per me questo “novantesimo”? So che per molti questa è una data di alto valore simbolico ma per me il ricordo della mamma è un qualcosa di quotidiano. C’è ancora molto affetto attorno alla sua figura e per una serie di ragioni. Grazie ai social la sua vita è conosciuta a 360° anche dai ragazzi che la scoprono oggi. Ci sono star che sono rimaste ancorate a uno o più film. Mamma è stata sempre se stessa in tutta la sua vita fino a chiudere un cerchio».
Così, Luca Dotti, il più giovane dei due figli di Audrey Hepburn, commenta col cuore e ben oltre i formalismi una ricorrenza celebrata in tutto il mondo: i 90 anni dalla nascita della madre a Ixelles, nei dintorni di Bruxelles, il 4 maggio 1929. Diva tra le più famose della storia, la terza in assoluto secondo l’American Film Institute, vincitrice di due Oscar, tre Golden Globe, un Emmy, un Grammy Award, tre David di Donatello, entrata nella leggenda per film come Colazione da Tiffany, Sabrina, Vacanze Romane o My Fair Lady, tuttora è per i più un’icona di eleganza, grazia, raffinatezza e femminilità. Ma per Luca è stata e resta semplicemente la mamma. In t-shirt e blue jeans, inseparabile da Mr Famous, il suo Yorkshire, fan sfegata di Raffaella Carrà e della serie tv Cuore-Batticuore come l’è rimasta impressa, come l’ha vissuta nell’intimità di Tolochenaz sul lago di Ginevra, dove si trasferì con lei dopo la separazione dei genitori, piuttosto che nelle mise impeccabili ideate dall’amico Hubert de Givenchy, con cui la ricordano tutti.
Proprio grazie a Luca, al suo libro Audrey mia madre, pubblicato da Electa Mondadori 4 anni fa e i cui proventi sono stati devoluti all’Audrey Hepburn Children’s Fund, è trapelato forse per la prima volta il lato più vero dell’attrice. L’idea di scriverlo gli era venuta, «ritrovando un quaderno tutto sfilacciato su cui mamma trascriveva le sue ricette. C’erano anche piatti complessi e ambiziosi, che però non sono mai arrivati alla nostra tavola. Perché in cucina, come nella vita, mia madre si era liberata a poco a poco di tutto ciò che non le apparteneva per conservare solo ciò che per lei contava davvero».
Luca è nato dalle seconde nozze della diva con lo psichiatra italiano, Andrea Dotti, celebrate il 18 gennaio 1969, un anno dopo il divorzio con Mel Ferrer. E’ come se la madre abbia vissuto tre vite: la prima a Hollywood, quella della precisina “sgobbona” che si svegliava ogni mattina alle 4 in punto per ripassare i copioni: «Mamma non si riteneva una grande attrice. Era quasi stupita dei consensi che riscuoteva. Pensava: “Prima o poi si renderanno conto dell’errore e mi manderanno a casa”. Per scacciare quella paura si alzava prima di “loro” e ripassava la parte». Nel periodo hollywoodiano si tenne ben lontana dagli eccessi in voga tra le altre star del suo tempo: «L’unico gossip lavorativo che mi raccontò riguardava alcuni colleghi che potevano scatenarsi tutta la notte e la mattina dopo, con un po’ di trucco, una doccia fredda e un buon goccetto, recitare in modo impeccabile», ricorda Luca.
La seconda vita della Hepburn, fu «da vera casalinga», come disse lei stessa, lontana dalle scene e vicina alla famiglia, per una precisa scelta «per essere leale con ciò che per lei valeva di più»; infine la terza, dal 1988 fino alla morte nel 1993, come ambasciatrice dell’Unicef, per dedicarsi quando i suoi figli erano ormai diventati grandi a quei bambini abbandonati o malnutriti ai quali guerre, soprusi, fame e miseria rubavano l’infanzia. «Non dobbiamo dimenticarci mai di quei bambini che non conoscono la pace, che non conoscono la gioia né il sorriso. È a nome di questi bambini che io parlo, bambini che non hanno voce», diceva Audrey. E questa convinzione forse è stata la sua eredità più preziosa. La pensano così anche Luca e suo fratello.
Qual è la prima immagine che le viene in mente pensando a sua madre?
«Un’immagine legata alla natura, ai giardini, alle piante che amava moltissimo ed è un’immagine legata anche al suo compleanno che cade il 4 maggio. Per la mamma era una giornata importante anche il 5 in cui si festeggia la liberazione dai nazisti nella terra in cui trascorse l’infanzia e l’adolescenza: l’Olanda. Così, in questo periodo trovava una doppia gioia. Quell’evento storico fu anche l’episodio più importante della sua vita, quasi una rinascita, qualcosa che ha dato un senso a tutto il resto.
Il ricordo più dolce?
Ne ho tanti. Ma quelli più speciali sono legati ai momenti della prima colazione, quelli delle confidenze, dei racconti, soprattutto legati all’infanzia e all’adolescenza di mamma.
Le parlava dei dispiaceri passati, neppure degli stenti durante la guerra o del dolore per l’abbandono paterno?
Sì, ne parlava molto spesso, ma in modo dolce, direi con affetto, come si può fare con un bambino, non per impressionarlo ma per trasformare il proprio vissuto in una testimonianza importante, per far comprendere il valore della pace, della libertà e di altri valori che a volte si danno per scontati.
È stata forte e al tempo stesso fragile, il grande regista Peter Bogdanovich la definì “farfalla di ferro”. Le rende giustizia questa definizione?
Sì, io la amo profondamente perché è ambivalente e le corrisponde: la mamma sembrava fragile ma in realtà era forte. Non affrontava la vita con arroganza, ma con dolcezza che non vuol dire affetto debolezza quindi difendeva, determinata, le sue convinzioni, una di queste, fortissima, era che l’odio si combatte con l’amore. La sua sensibilità non l’ha mai portata a essere rassegnata o remissiva.
Davvero il suo film che preferisce è gli Occhi della notte e perché?
Ne ho tanti film preferiti della mamma, da Vacanze romane a Gli occhi della notte, il primo e l’ultimo dei suoi film del periodo hollywoodiano. Questo però era il film che amava di più forse perché era l’unico in cui lei non faceva Haudrey, ossia l’icona, ma era un ruolo che si era scelto e che aveva studiato con attenzione. Non va dimenticato però che anche i film come Sabrina o Vacanze romane sono tuttora attuali e contribuirono a diffondere l’immagine di una donna diversa, con più libertà.
Quando conobbe suo padre era un po’ in fuga dalla sovraesposizione hollywoodiana. Voleva una famiglia numerosa, nella semplicità. Che cosa non andò?
Questa è una domanda da milioni di dollari. Papà aveva un vissuto completamente diverso dal suo. Era nato nel ’38, nove anni dopo la mamma ma il loro divario di età era maggiore di quello anagrafico per le differenti esperienze, mamma aveva vissuto la guerra da ragazza, papà da bambino, lei era maturata prima. Ho sempre pensato che se si fossero conosciuti vent’anni dopo le cose sarebbero andate in modo diverso. In quel momento papà era ancora ragazzo, mondano, mamma cercava la semplicità degli affetti. Poi per mio padre fu molto difficile confrontarsi nel quotidiano con il ruolo di “principe consorte” ma, ripeto, solo per una questione di maturità.
Era credente, avete mai parlato della vita oltre la vita?
Era protestante di famiglia ed era molto attenta ai gesti, agli atti pratici piuttosto che alle regole o ai precetti, ma era molto più religiosa e spirituale lei di chi manifesta trasporto solo per i formalismi. Amava il Natale come festa della famiglia ma ancor più la Pasqua, perché corrispondeva alla sua idea che l’amore vince la morte, alla sua eterna convinzione di una promessa di vita. Anche il suo impegno per l’Unicef nasceva dalla consapevolezza di cosa soffrissero i bambini abbandonati, malnutriti, vittime delle guerre. L’amore e l’attenzione per il prossimo sono state la sua forma di religiosità più evidente.
Una frase che lei ripeteva e che le è rimasta nel cuore?
Ci sono molti suoi aforismi anche tratti dai film che girano su Internet. Alcuni sono belli e profondi, ma per me è una frase semplice che esprime la cosa più importante in cui credeva: “l’amore è tutto”.
Battute o scherzi divertenti che avete condiviso?
Mamma amava molto ridere ma non le piacevano le battute sarcastiche o ciniche. Detestava che qualcuno si prendesse gioco degli altri. Forse quello che più ha amato di mio padre era il fatto che la facesse ridere. Lei invece aveva l’arte del sorriso e la capacità di stupirsi sempre della bellezza del mondo, di un viaggio, di un gesto, di un incontro. Senza mai essere diventata snob. Poiché da ragazzina, negli anni olandesi aveva rischiato di morire, considerava la vita un dono già di per sé e tutto quello che accadeva poteva essere accettato in maniera diversa con gioia. Forse la leggenda più sbagliata che sia stata costruita attorno a mia madre è quella della “principessa triste” o malinconica.
Con suo fratello Sean avete 10 anni di differenza. Vi ritrovate a volte a parlare di vostra madre, dei rispettivi ricordi?
Molto spesso. Dieci anni possono essere tanti ma dipende da come si è vissuto. Spesso riscopriamo molte cose della sua infanzia, delle primissime interviste e ci rendiamo sempre più conto che è stata una persona che non ha mai cambiato testa, era molto stabile nel modo di porsi. Lei diceva: “Come sono noiosa!”. Tra me e mio fratello ci ritroviamo scambiandoci i ricordi perché lui magari ha vissuto di più il momento in cui lei era a Hollywood. Sia a me, sia a mio fratello fa piacere quando incontriamo i suoi vecchi amici o persone che l’hanno incontrata, di qualsiasi estrazione e tutti la ricordano allo stesso modo e insistono a non riferirci particolari della sua vita da diva ma emozioni autentiche che lei ha trasmesso. Noi non possiamo avere il timore di non aver conosciuto davvero nostra madre, perché il ritratto che ne danno gli altri corrisponde al nostro.
Quanto è stato scomodo da ragazzo essere figlio di una icona?E’ una domanda interessante perché nella mia vita ho incontrato tante persone che danno quasi per scontato che è un vantaggio e basta. In verità può anche diventare molto difficile. Se io non avessi avuto la fortuna di avere una madre che aveva in se stessa una grandissima stabilità e un grandissimo senso della famiglia, si sarebbe potuta tradurre in un’esperienza destabilizzante. Su tutto ringrazio la mamma di aver capito quanto fosse importante vivere la normalità perché era davvero un’icona, ma riuscì a mettere questo aspetto in secondo piano.
È vero che preparò un pesto tutto suo, di fortuna, per lo stilista Valentino?
Sì, ero a casa con lei e aggiunse al basilico che era insufficiente del prezzemolo e il risultato fu buonissimo. Le sue ricette un po’ le somigliano. Da una parte erano difficili da realizzare, dall’altra non la facevano mai demordere. Era testarda con grazia.
Delle tre vite di Audrey, hollywoodiana, da casalinga e ambasciatrice Unicef quale le fu più congeniale?
In fondo sono state tre fasi di una stessa vita. La carriera di star non se l’è scelta e non l’ha neanche voluta. Non ha combattuto per diventarlo ma vi si è
riuscendo a restare se stessa e a vedervi solo un’opportunità lavorativa che le avrebbe permesso di mettere su una famiglia.
All’Unicef ci è arrivata per gli stessi motivi. L’amore di madre l’aveva vissuto con noi, e quando siamo cresciuti, è stato un bellissimo modo, anche questo non intenzionale, di chiudere il cerchio.
Le tre carriere sono la vita della stessa donna e le ha affrontate nello stesso modo. L’aspetto più importante è che lei non ha mai dimenticato l’adolescenza trascorsa in Olanda. In tanti rinnegano o cambiano le proprie posizioni. Mamma per un fatto di carattere e di vissuto, è rimasta sempre, e nel modo migliore, quella ragazzina sopravvissuta alla guerra.
Tutti i sopravvissuti restano poi in una condizione tra gratitudine e senso di colpa. E’ venuta a sapere di persone che non ce l’hanno fatta magari per un colpo di fucile che potevano schivare e questo non ha fatto che aumentare il suo amore per la vita e per il prossimo.
In che modo prosegue l’impegno di sua madre nell’Unicef, attraverso lei, Luca, e suo fratello?
Con Unicef continuiamo a collaborare entrambi e io sono presidente della Audrey Hepburn Children’s Fund. Una fondazione che organizza raccolte benefiche per i piccoli bisognosi nel mondo.
Ci sono iniziative legate a questo novantesimo?
Sto lavorando a un progetto molto importante a cui tengo molto e ne parleremo al momento opportuno. Diciamo che si ispirerà a un libro uscito lo scorso aprile negli Usa con una mia piccola introduzione. Il titolo è: Dutch Girl: Audrey Hepburn and World War II l’autore è Robert Matzen. E’ un libro storico, documentato, molto appassionante e io ho riscoperto cose che sapevo già grazie ai racconti edulcorati da mia madre. Ora che al mio primogenito Vincenzo che ha compiuto 18 anni si sono aggiunte le mie due bambine Marta 9 e Alice 7 sento ancora di più il dovere di raccontare loro chi è stata la nonna.
Che cosa avrebbe pensato sua madre di questo strano scorcio epocale, in cui le politiche dei muri e dei blocchi, gli egoismi nazionali sembrano mettere da parte e calpestare ogni logica umanitaria?
Avrebbe ripetuto una sua frase che a me sta tornando spesso in mente: il “Il nazismo non è iniziato con un forno crematorio ma con delle parole d’odio”. Oggi siamo in uno scenario nazionale e internazionale in cui sembrano tornare in modo inquietante situazioni che credevamo vinte per sempre. L’odio e il vedere facili nemici stanno diventando molto comuni. Ma la mamma non si sarebbe abbattuta, avrebbe detto: “Bisogna sconfiggere il male con il bene" e si sarebbe rimboccata le maniche.