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Non mi sento un eroe ma vorrei giustizia: Augusto di Meo, il testimone che lo Stato non riconosce

18/03/2019  Il 19 marzo 1994 era in parrocchia quando il killer sparò al sacerdote. Andò subito a denunciare l’accaduto e identificò in Giuseppe Quadrano autore materiale dell’omicidio. Lo Stato però non lo ha riconosciuto come testimone di giustizia. Vi spieghiamo il motivo

«Lo Stato riconosce pentiti e collaboratori ma non i testimoni. Io non mi sento un eroe, ma vorrei giustizia». Augusto di Meo, 58 anni, è il testimone oculare dell’assassinio di don Giuseppe Diana. Il 19 marzo 1994 era in parrocchia quando il killer sparò 5 colpi al volto del sacerdote. Andò subito a denunciare l’accaduto e poi riconobbe in Giuseppe Quadrano autore materiale dell’omicidio. Lo Stato però non lo ha riconosciuto come testimone di giustizia: la legge che inquadra queste figure è infatti del 2001 e poche settimane fa il sottosegretario agli interni Luigi Gaetti ha confermato che Di Meo non può essere riconosciuto come testimone di giustizia. Così in tutti questi anni Di Meo ha dovuto affrontare da solo paura, intimidazioni e ritorsioni.

Di Meo, cosa successe il 19 marzo 1994?
«Arrivai alle 7 in parrocchia, incrociai il cappellano Agostino e  raggiunsi don Peppe nello studio. Ci facemmo gli auguri per san Giuseppe e la festa del papà: ci abbracciammo e programmammo la serata. Intanto le suore, in chiesa, stavano recitando il rosario. Commentammo l’omicidio di un operatore ecologico. Gli chiesi che cosa potessimo fare. E lui risposte: “Bisogna pregare”».

Poi arrivò il killer…
«Peppe chiuse lo studio, aveva le chiavi in mano. Fece 10 metri nel corridoio e uno con i capelli lunghi chiese: "Chi è don Peppe?". Lui annuì e ricevette cinque colpi a bruciapelo in faccia. Cadde all’indietro, mi sfiorò e finì a terra. Lo chiamavo: Peppino! Peppino! C’era sangue dappertutto. Alzai gli occhi: il killer rimise la pistola nella cintura, si aggiustò la giacca e se ne andò tranquillo, come se non fosse successo niente. Sentii la sgommata di una macchina».

Cosa fece a quel punto?
«La forma doveva diventare sostanza e gli insegnamenti di don Peppe diventar realtà: andai a denunciare quanto avevo visto. Poi tornai a casa, raccontai l’accaduto a mia moglie e le dissi anche che ero stato dai carabinieri: lei capì subito che la nostra vita era finita».

La situazione a Casale di Principe divenne insopportabile…
«Mi dicevano spione, sbirro, non riuscivo più a lavorare, la tensione era altissima. Avevo paura, i nostri figli avevano 5 e 6 anni. Ho dovuto chiudere il negozio di fotografia e lasciare a casa quattro persone. Mi sono rifugiato quattro anni a Spello, in Umbria».

Che rapporto aveva con don Diana?
«Intenso, forte, mi chiamava fratello. Contaminava di bene il territorio, sapeva stare vicino alle persone, aveva sempre tante idee e soluzioni. Un esempio? Un anno ebbi la bronchite e lui venne a prepararmi un decotto prima di celebrare Messa».

Cosa la colpiva del suo essere prete?
«Parlava ai convegni ma era capace di azioni concrete. La sua Chiesa era stare sul territorio, vicino alla gente, per salvarla. Un anno organizzò il palo della cuccagna. Pensando a chi era coinvolto nella criminalità organizzata, mi disse: “Li facciamo stancare fino a mezzanotte, così poi se ne vanno a dormire e per sta notte non fanno male a nessuno”».

Cosa ne pensa delle voci diffamatorie che sono circolate su don Diana?
«Solo falsità, calunnie. Peppe era scout e, per vicinanza umana, capitava che abbracciasse anche i ragazzi e le ragazze. Tanti, anche all'interno della Chiesa, si sono lasciati influenzare da queste voci. Oggi vengono da tutta Italia per conoscere la sua testimoniaza, ma qui ancora don Diana non è riconosciuto. Forse fra 50 anni, chissà...».

Di Meo, lei oggi come sta?
«Soffro ma allo stesso tempo cerco di resistere alla mentalità mafiosa. Voglio che i nostri figli possano godere di un territorio liberato dai camorristi».

Cosa chiede allo Stato?
«Di essere riconosciuto come testimone di giustizia. I collaboratori di giustizia hanno tutele e sostegno economico, io no. Ma, soprattutto, non riconoscendo il testimone oculare in qualche modo si legittime la camorra. Io, comunque, farò memoria di don Diana fino all’ultimo minuto della mia vita: ne ho la responsabilità».

Don Peppe Diana e la caduta di Gomorra, di Luigi Ferraiuolo , su Sanpaolostore.it

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