Dov’eravamo noi quando uomini, donne, bambini venivano sterminati nelle camere a gas? Dov’eravamo quando intere famiglie venivano caricate su vagoni merci e portate a morire nei campi di concentramento? Perché non abbiamo fatto nulla? Perché i Governi d’Europa non hanno agito? Queste domande continuano a interrogare le nostre coscienze, a tormentarci, a non darci pace. Auschwitz non concede risposte. Eppure, ogni anno un milione e mezzo di persone da tutto il mondo visitano questo Luogo. «Cosa cerchiamo veramente fra i blocchi e le baracche, le torrette di guardia, il filo spinato, i crematori e le camere a gas? Cosa ci fa pensare che questo sia un luogo che dobbiamo conoscere?». Così scrive Piotr M.A. Cywiński, direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau dal 2006, in Non c’è una fine (Bollati Boringhieri). In questo libro carico di umanità, passione, lucidità e rigore, Cywiński, storico polacco nato nel 1972, cattolico, molto attivo nella promozione del dialogo interculturale, scava nei nostri dilemmi, affronta le problematiche storiche, antropologiche e morali legate alla Shoah, lanciando un duro monito a ognuno di noi: viviamo in un mondo lacerato da guerre, violenze, fame. Tutto accade sotto i nostri occhi. «Facciamo attenzione», scrive l’autore, «ad avere un atteggiamento inquisitorio nel giudicare persone e tempi sempre più distanti. Stando ad Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione, giudichiamo l’umanità».
Cywiński, ad Auschwitz arrivano persone da tutto il mondo. Quali sono le domande e le problematiche più frequenti che vengono poste?
«Il numero dei visitatori aumenta ogni anno. Nel 2016 abbiamo superato i due milioni e la maggior parte sono giovani, che provengono da diverse istituzioni educative e scolastiche, da culture e tradizioni storiche diverse. Questo pone una serie di problemi dal punto di vista dell’immaginazione storica. Gli americani hanno un immaginario della storia del XX secolo in Europa più debole. Anche fra i giovani europei ci sono differenze. Abbiamo messo a punto un sistema di guide eccezionale, che copre venti lingue: credo sia un record fra i musei. Una scelta fatta coscienziosamente, che ci permette di affrontare più liberamente i giovani visitatori e di lavorare sui vari gruppi linguistici. Le guide per gli italiani, ad esempio, danno più informazioni sui treni della memoria, su come veniva effettuato il trasporto dei prigionieri e come essi spesso morivano durante il viaggio».
Nel libro lei ripete spesso che Auschwitz è qualcosa di incomprensibile e inspiegabile. Eppure lei, da storico, tenta di dare delle risposte.
«Tutte le domande più difficili hanno livelli di risposta diversi: possiamo dare risposte storiche ai fatti accaduti. Ma se vogliamo affrontare le domande dal punto di vista antropologico e morale, si arriva a capire che questa macchina fu costruita su una ideologia assolutamente folle. Dopo la Shoah abbiamo trovato un’enorme quantità di risorse storiche, cronache, libri, diari, deposizioni. Ma si tratta sempre del punto di vista delle vittime. Ci sono poche fonti storiche buone che enuncino il punto di vista dei carnefici. La parte dell’archivio delle SS che non è stata bruciata contiene alcuni documenti, ci sono poi le testimonianze rese durante i processi. Ma ovviamente ognuno si difende come può, quindi a volte queste fonti non sono affidabili. Il problema antropologico risiede non nella vittima ma nel carnefice, e non ci sono fonti sufficienti per capire la sua ideologia, la propaganda, cosa gli passasse per la testa. Credo che se oggi non ci si tuffa in profondità, in cosa è stato Auschwitz, sarà difficile capire non solo il passato ma anche le sfide della contemporaneità. Pensiamo al problema dei profughi siriani: se oggi ci vergogniamo della nostra incapacità di reagire a questa tragedia è perché da qualche parte nella nostra coscienza abbiamo comunque interiorizzato l’idea della Shoah, la memoria della Seconda guerra mondiale che continua a interrogarci».
Memoria, consapevolezza e responsabilità: sono i tre passi, da lei indicati, che di fronte ad Auschwitz l’uomo dovrebbe compiere. A che punto siamo in questo cammino dalla memoria alla responsabilità?
«Il processo della memoria ha avuto successo: negli anni ’80 avevamo paura dei negazionisti, ma credo che sia stato compiuto uno sforzo enorme per rigettare e isolare queste teorie. Arriviamo ad assumerci una responsabilità più profonda? La risposta è no. Nel corso degli ultimi anni una moltitudine di persone è stata uccisa in Sudan. Nessuno se ne è interessato, come se non ci toccasse. Sono convinto che fra 50 anni in Sudan si aprirà un museo su questi fatti e i giovani visitandolo piangeranno e si domanderanno perché l’Europa non abbia fatto nulla. Al tempo della Seconda guerra mondiale una parte dell’Europa poteva dire di non sapere. Oggi, la mancanza di responsabilità è ancora più grave perché non solo sappiamo ma in più abbiamo accesso all’informazione in tempo reale».
La sua fede ha mai vacillato?
«No. La mia fede è cambiata, si è evoluta, da un certo punto di vista si è addirittura rafforzata. Non si è mai indebolita. Per noi cristiani l’approccio all’orrore è più facile perché abbiamo la prospettiva di un Dio che ha sofferto. Dalla prospettiva ebraica Auschwitz è incomprensibile perché alla base del rapporto fra l’uomo ebreo e Dio c’è un patto di alleanza. La teologia non è riuscita a dare risposte».
Lei critica l’atteggiamento della Chiesa, il silenzio di Pio XII, ma anche la visita ad Auschwitz di Benedetto XVI nel 2006. A luglio 2016 papa Francesco durante la sua visita ha scelto di non pronunciare alcun discorso. Lei cosa ha pensato?
«Benedetto XVI veniva da tedesco. Ha ripreso gli elementi della visita di Giovanni Paolo II e ne ha aggiunti di suoi, domandandosi perché di fronte all’orrore Dio non abbia reagito. Ma prima di chiedere a Dio perché non abbia fatto nulla bisogna porre questa domanda alla nostra coscienza. Francesco ha scelto il silenzio, ponendo un grande problema ai giornalisti. E noi del Museo abbiamo fatto in modo di non dare accesso alla stampa al registro sul quale il Papa aveva scritto una frase, temevo che quelle parole potessero diventare sui giornali il riempimento del suo silenzio. Avevo dato ordine ai colleghi di prendere il registro e nasconderlo fino alla fine della visita. Francesco ha evitato di teologizzare la Shoah. Credo che il suo silenzio sia stato accolto meglio dai cristiani che dagli ebrei. Quella visita mi ha segnato nel profondo. Il silenzio di Francesco ad Auschwitz entrerà nella storia».
Giulia Cerqueti