Giornalista, scrittore e opinionista inglese, Austen Ivereigh (Guildford, 1966) ha ricoperto ruoli di responsabilità al settimanale cattolico inglese The Tablet e ha collaborato strettamente con l’ex arcivescovo di Westminster, il cardinale Cormac Murphy-O’Connor. Nel 2010 ha co-fondato Catholic Voices, diffuso ora in diciannove Paesi. È autore di Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio (Mondadori 2014).
Quali sono i contenuti e gli obiettivi principali della riforma di papa Bergoglio?
«La sintesi più efficace è contenuta in un’espressione molto diffusa in America latina: “Conversione pastorale”. È il frutto di un discernimento che la Chiesa ha fatto alla luce del cambiamento d’epoca provocato dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico. Come è stato spiegato soprattutto nel grande incontro della Chiesa latinoamericana ad Aparecida, in Brasile nel 2007, la conversione pastorale comporta uno spostamento di attenzione: non più su categorie razionali, strutture storiche e alleanze politiche, ma su un nuovo approccio pastorale e una strategia di evangelizzazione che enfatizzino l’esperienza personale di Gesù Cristo, una proclamazione kerigmatica (cioè incentrata sul Vangelo, ndr), fatta di misericordia e testimonianza di vita, anziché una proclamazione dottrinale. L’obiettivo principale della conversione pastorale proposta da Francesco è promuovere una nuova cultura nella Chiesa – missionaria, focalizzata sulle periferie, con una forte enfasi sulla misericordia – per meglio annunciare il Vangelo nell’era contemporanea. Tutte le riforme pratiche e di governance sono al servizio di questa conversione pastorale. Questa visione è spiegata bene in Evangelii gaudium, che riformula le intuizioni essenziali di Aparecida per la Chiesa universale. Alcuni nella Chiesa interpretano la conversione pastorale come un diluire la verità cattolica per assimilare la Chiesa alla modernità. È il contrario. Come fece il Vaticano II, si tratta di convertire la Chiesa in modo che essa possa proclamare meglio quella verità nel contesto della modernità».
Qualcuno però sostiene che le riforme di Francesco siano troppo legate a questa sua straordinaria personalità: il rischio è che, finita l’era Bergoglio, tutto torni come prima?
«Concordo sul fatto che Bergoglio abbia una personalità straordinaria. Ma più approfondisco le origini della visione che guida il suo pontificato, meno mi sembra originale: è essenzialmente l’universalizzazione delle indicazioni di Aparecida. Tutti e tre i documenti magisteriali – Evangelii gaudium, Laudato si’ e Amoris laetitia – hanno chiaramente le loro origini in quel documento. Certo, Bergoglio è stato uno dei principali architetti di Aparecida, ma la mia ipotesi è che sia la visione della Chiesa del continente, piuttosto che la propria, che egli sta attuando. Inoltre, credo che questo sia il primo di una serie di pontificati autenticamente universali. Penso che Francesco stesso sia consapevole del fatto che sta aprendo la Chiesa a nuovi venti che soffiano dal Sud. L’America latina è diventata la “fonte” della Chiesa universale, dopo un lungo periodo in cui lo è stata l’Europa, e prima ancora il Medio Oriente. Ciò non significa, necessariamente, che anche il prossimo Papa sarà latinoamericano (anche se è molto probabile), ma che la direzione essenziale della Chiesa sarà stabilita da quel continente. Quindi il pontificato di Francesco sarà visto dalla storia come l’apertura di questa nuova epoca, piuttosto che come un’apparizione speciale. Lo dico con una certa sicurezza, in parte a causa del trend demografico del cattolicesimo e in parte a causa del rimodellamento del Collegio cardinalizio».
La mancata riforma della Curia è l’appunto principale che gli analisti di cose vaticane fanno a Benedetto XVI, un Papa molto ammirato per diversi altri aspetti. Le sembra che al momento Francesco abbia ottenuto risultati migliori?
«Il segreto della riforma della Curia attuata da Francesco è che non è “sua”. Come egli sottolinea continuamente, i cambiamenti rappresentano un mandato ricevuto dai cardinali nelle riunioni pre-Conclave, e Francesco ne ha affidato l’architettura al C9 (il Consiglio dei 9 cardinali, ndr). Questo, per la quasi totalità, non è composto da membri della Curia. In altre parole, la riforma della Curia viene portata avanti dal Collegio cardinalizio, non dal Papa. Questo è importante, perché al prossimo Conclave è vitale che i cardinali non si chiedano: “Come possiamo continuare le riforme di Francesco?”; ma: “Come continuiamo le nostre riforme?”. Contrariamente a quanto molti sostengono, io sono dell’opinione che i progressi nella riforma della Curia siano stati sinora sostanziali e rapidi. Sembra lontanissima l’epoca in cui la banca del Vaticano era un importante centro di riciclaggio di denaro. I nuovi dicasteri e segretariati costituiscono i più grandi cambiamenti dall’epoca di Paolo VI. Ma penso che la vera riforma sia consistita, ancora una volta, nel cambiamento del focus. Cito come esempio il fatto che negli ultimi cinque anni la Congregazione per la dottrina della fede non ha censurato nemmeno un teologo e che i due nuovi, grandi dicasteri sono stati tra i più attivi. C’è un vero cambiamento a Roma, ed è profondo. Ma la sua forma finale sarà visibile chiaramente solo con il prossimo Papa, o magari con quello successivo».
Qual è la riforma che Francesco sta faticando maggiormente a realizzare nella Chiesa?
«Penso che la battaglia più complicata di Francesco sia l’introduzione del discernimento. Il Papa si domanda costantemente: che cosa sta chiedendo Dio alla Chiesa? Cosa mi chiede, oggi, avendo queste opzioni concrete di fronte a me? E vuole che tutta la Chiesa faccia questo. Discernimento significa capacità di prestare attenzione al particolare, resistere alla tentazione di inserire tutto in categorie e accettare il fatto che la legge può guidarti solo fino a un certo punto. Significa accettare un certo grado di incertezza e permettere allo Spirito Santo di illuminare la via da seguire. La pratica del discernimento è una conseguenza della misericordia, che è il coinvolgersi di Dio nella vita concreta delle persone. Quindi il discernimento è la chiave per la conversione pastorale di cui parlavo all’inizio. La furiosa reazione di alcuni al capitolo 8 di Amoris laetitia mostra quanto ci sia disperato bisogno di conversione pastorale nella Chiesa e quanto poco sia compreso il discernimento, che è stato sacrificato nella lotta contro il relativismo».
Ci spieghi meglio...
Il discernimento attraversa tutta l’esortazione apostolica Amoris laetitia… In particolare il capitolo 8 chiede ai pastori di non limitarsi ad applicare le regole sulla Comunione ai divorziati risposati in modo generale, ma di tenere in tensione da una parte la norma sulla ricezione dell’Eucaristia e la dottrina dell’indissolubilità, dall’altra la situazione concreta e la storia individuale della persona e della coppia. Francesco non cerca di alterare o diluire nessun elemento, né la dottrina né la misericordia; vuole tenerli in tensione, in preghiera, come fa Gesù. Il discernimento richiede di saper camminare con le persone e ascoltarle. Questo vale soprattutto per la formazione dei sacerdoti. È da qui che inizierà la conversione pastorale del clero del futuro. Francesco sta facendo ciò che tutti i Pontefici cercano di fare: mettere Cristo al centro, e così facendo denunciare l’ateismo nascosto o l’ideologia mondana a cui i cattolici aderiscono nonostante le apparenze. Con Giovanni Paolo II era la “sinistra” a essere in difficoltà – specialmente chi adottava un’ermeneutica marxista –, mentre sotto Francesco è la “destra”. In entrambi i casi il Vangelo viene usato per seguire un’ideologia estranea al Vangelo stesso. Il discernimento è la capacità di riconoscere ciò che è veramente di Dio. È il grande contributo di Francesco al cammino postconciliare della Chiesa».