«Un anno compiuto già da qualche mese, ma il mio bambino non è come tutti gli altri. Non parla, neppure una parolina. Ma la cosa peggiore è che non mi guarda negli occhi, non mi sorride, non mi fa capire che cosa vuole, che cosa desidera… È come se fosse chiuso in un mondo tutto suo, in cui non c’è posto per me. Che cosa avrò sbagliato? Gli avrò dato poco affetto? L’avrò lasciato troppo solo davanti alla Tv»?
Marta ha due splendidi figli, Luca, di 8 anni e Stefano, di quindici mesi. È davanti al suo pediatra di fiducia; si sfoga, vuole capire che cosa non va in suo figlio e che cosa deve fare. L’angoscia e la paura sono i sentimenti prevalenti, uniti a un fortissimo senso di colpa. Per la mamma e tutta la famiglia inizia un viaggio molto lungo e doloroso, che dallo studio del medico di base li conduce dal neuropsichiatra infantile e poi dallo psicologo. Infine, dopo le osservazioni, i test, i controlli, la tremenda diagnosi: «Vostro figlio è affetto da un disturbo dello spettro autistico».
Il mondo cade addosso a Marta, è come una tempesta che si abbatte su tutta la casa. Ma poi la vita ricomincia e, con Stefano in particolare, è come se si dovesse reinventare tutto: spazi, abitudini, gesti, parole, ogni cosa acquista una prospettiva nuova, per dargli benessere e ritrovare pace.
In Italia non esistono dati certi; il primo osservatorio epidemiologico partirà a Roma nei prossimi mesi, ma le stime parlano di un bambino autistico ogni 150 nati. In Usa, invece, la media è di uno a 68.
«Quando i genitori, che al giorno d’oggi sono decisamente molto attenti a cogliere fatiche e problemi dei loro piccoli fin dai primi mesi di vita, arrivano nei nostri ambulatori, sono pieni di angoscia e di preoccupazione per la mancanza di linguaggio e di interazione del loro bambino», spiega la dottoressa Paola Visconti, neuropsichiatra infantile, responsabile del Centro autismo presso l’Istituto delle scienze neurologiche di Bologna, uno dei centri di eccellenza del nostro Paese. La dottoressa Visconti si occupa da circa 30 anni di disturbi dello spettro autistico e conosce molto bene gli interventi riabilitativi di tipo cognitivo-comportamentale. «Il senso di impotenza, della mamma soprattutto, è fortissimo e affiora la domanda: dove ho sbagliato? Ma è un sentimento che va subito contrastato: avere un bambino autistico non deriva da nessuna mancanza, da nessuna colpa dei genitori. Si tratta di una incapacità innata, genetica e biologicamente determinata, della persona di rispondere alle nostre sollecitazioni con lo sguardo, con un abbraccio, con un semplice gesto del dito. Non sa fare la cosiddetta “triangolazione” tra oggetto, stimolo, desiderio. Se desiderano qualcosa, questi bambini, non ce lo sanno indicare con gesti, sguardi o suoni, come fanno gli altri. Mancano loro i prerequisiti socio-comunicativi, corrispondenti a aree funzionali cerebrali che permettono di entrare in relazione con gli altri. Quello che per la maggior parte dei neonati è normale, a loro va insegnato».
C’è tutto un mondo da conoscere. E per poter vivere bene accanto a un figlio autistico e accrescere la sua qualità di vita, ridando serenità all’intera famiglia, bisogna capire bene come funziona. È un viaggio strabiliante e affascinante quello che Federico De Rosa (collaboratore di BenEssere da qualche mese) ci fa fare nel mondo dell’autismo: lui lo chiama “L’isola di Noi”. Quello che le persone con questo disturbo descrivono come una condizione da “extraterrestri”, ci si svela in tutta la sua complessità, mettendo a nudo fatiche e risorse di un mondo che in gran parte ci è sconosciuto e quindi ci crea ansia e paura.
Il viaggio è diventato un libro, edito da San Paolo, dedicato a tutte le persone cosiddette “normali”, che l’autore – lui pure autistico, classe 1993 – ribattezza “neurotipici”, nel senso che corrispondono a una tipologia prevalente. «Visitare l’isola di Noi, il paese della civiltà autistica, è sicuramente una delle esperienze di viaggio più uniche che si possano fare, un vero percorso esistenziale in uno dei tanti mondi della diversità. Noi autistici», scrive ancora Federico, «sappiamo bene che chi porta in sé una diversità, una difficoltà, deve essere oggetto di una cura e di un’attenzione superiori».
Le fatiche di stare quotidianamente a fianco di un figlio con disturbi dello spettro autistico le conoscono bene tantissimi genitori, ma anche insegnanti ed educatori. «All’inizio, quando abbiamo avuto la diagnosi è stata una botta incredibile dal punto di vista affettivo», racconta il signor Oreste, papà di Federico, che parla di una «battaglia condotta giorno dopo giorno per vent’anni» e che, lui spera, durerà ancora molto. «Abbiamo iniziato ad accompagnarlo passo dopo passo, credendo in lui, dandogli fiducia e stimolandolo a fare sempre una cosa nuova, mai provata prima. Il dolore e l’angoscia per la condizione di un figlio autistico non ci lasciano mai, ma non bisogna lasciarsi vincere da questi sentimenti. Noi cerchiamo di trasmettergli una cosa sola, che può avere una vita “diversamente” felice».
«Penso che per voi neurotipici», ci mette in guardia Federico, «sia difficile immaginare l’ansia e la paura con cui una persona profondamente autistica combatte lungo tutta la giornata. Capire poco del mondo circostante, non saper prevedere che cosa accadrà tra breve, sentirsi in pericolo sono solo alcuni degli aspetti. Se la mente non riesce a dare un senso alla cascata disordinata di stimoli sensoriali che riceve, anche poter muovere braccia e gambe non serve a nulla».
«Mio figlio è autistico? Comprende il significato dei miei gesti»? «Come posso capire che cosa vuole, che cosa lo fa soffrire, se non parla»? «Come fare nel caso di comportamenti autolesionistici pericolosi per il bambino e come intervenire»? «Come garantire una qualità della vita degna in questa situazione»? «Mio figlio guarirà»? Oltre cinquecento persone, tra familiari, specialisti e operatori si sono ritrovati insieme a Varese l’11 novembre scorso per rispondere a queste e a tante altre domande raccolte nelle famiglie di ragazzi autistici di tutta Italia attraverso un questionario on line. Un’intensa giornata di studio promossa dal centro studi della Fondazione Renato Piatti onlus e dall’Anffas di Varese, in cui si è fatto il punto su ricerca, interventi e pratiche per migliorare la vita degli autistici e di chi vive loro accanto. Fra i relatori c’era anche la dottoressa Visconti: «Bisogna cominciare presto, intervenire con la diagnosi e le terapie il prima possibile, entro i primi due anni di vita e poi non arrendersi mai. Un bambino autistico va accompagnato per tutta la vita. Non basta, come si diceva un tempo, “nutrirlo d’affetto”: bisogna insegnargli schemi di gioco e le regole sociali che permettono di interagire con gli altri: quale distanza tenere, come si saluta, come abbracciare, come indicare e condividere ciò che interessa, normali atti di vita quotidiana che per lui non sono spontanei».
Federico è d’accordo: «Per favore, spiegatemi prima dove andiamo e perché, comunicate piano e solo verbalmente senza troppe espressioni del viso o gesti. Sono tutti stimoli che fanno rumore di fondo, che voi imprimete nella mia testa e che poi io devo mettere in ordine. State comunicando a Federico, un recettore inefficace e quindi dovreste andarci piano con la quantità e la complessità».
Le possibilità di intervento per i familiari, che devono essere affiancati e guidati da psicologi ed educatori, sono diverse, e dipendono molto dal tipo di autismo, che può essere di basso o alto funzionamento. «Il primo passo necessario», spiega la neuropsichiatra infantile, «è sapere che queste persone hanno una particolare attività sensoriale, sono ipersensibili e faticano a mettere insieme e integrare stimoli sensoriali; non possono stare in ambienti con troppi stimoli visivi o rumori, per cui bisogna far una sorta di “pulizia” dell’ambiente, dove ci siano poche cose e avere a disposizione un gioco alla volta! Infine, dobbiamo ricordarci che fanno fatica a essere toccate. Sono definiti “ciechi sociali” e “percettivi visivi”». La regola d’oro per comunicare con una persona autistica è, per esempio, accentuare la mimica e soprattutto usare poche parole chiare e frasi semplici.
Due strategie comportamentali sono molto importanti, ci spiega ancora Paola Visconti: «Visualizzare tutti i passaggi da fare durante un’azione, come, per esempio, fare la doccia. Usiamo dei cartoncini, oppure il Pc, per mostrare con disegni semplici o foto, i singoli gesti o le cose da fare in sequenza. E ripetiamole sempre uguali e spesso, come una routine da memorizzare. Mostriamo come si fa a fare un certo gioco, insegnando lo schema e scomponendo l’azione nei sui componenti base. Diamo prevedibilità e soprattutto, non smettiamo mai di insegnare».
La parola finale la lasciamo a Federico, che a una mamma scrive così: «Tuo figlio non è rotto, e neanche malato. È solo portatore di una diversità mentale radicale che gli rende fortemente difficile gestire la sua relazione con la realtà. Convinciti tu per prima che esiste per lui un futuro percorribile. Fagli fare ogni giorno esperienze nuove, convincilo che le difficoltà dell’autismo si possono superare un pezzetto al giorno. Fagli vivere che tu sei felice di lui».