Il trapano cacciavite che sigilla il coperchio di una bara bianca. Margherita che si dispera nel tentativo di aprire una porta chiusa. Faust che viene maltrattato dai suoi compagni di scuola. Margherita che canta e intanto si versa in testa dei bicchieri colmi d’acqua. Due bambini che vanno uno verso l’altro in bilico su una passerella. La scena bianca, fredda, asettica, che in pochi attimi si trasforma in un lussureggiante Giardino dell’Eden. Mefistofele che si spoglia del doppiopetto bianco per trasformarsi in diretta, ripreso da una telecamera dietro le quinte, in un viscido rettile tentatore. E infine quella colata di una sostanza nera che tutto copre e macchia e non lascia speranza.
Ci sono momenti indimenticabili e di struggente poesia nello spettacolo che ha aperto la stagione lirica 2017/2018 dell’Opera di Roma. Merito della direzione musicale di Daniele Gatti e della regia di Damiano Michieletto, i quali hanno lavorato in piena sintonia nell’ardua impresa di mettere in scena “La damnation de Faust” di Hector Berlioz, una composizione che lo stesso Berlioz non considerava un’opera, ma “una leggenda drammatica in quattro atti”. Un lavoro, quindi, non necessariamente destinato alle scene. Piuttosto, un oratorio profano in cui Berlioz, formidabile strumentatore, fa sfoggio di diversi elementi linguistici: marce militari, fanfare fuori scena, momenti fiabeschi, altri grotteschi, cori demoniaci e religiosi, una sola vera romanza.
Daniele Gatti tiene insieme tutti questi momenti con una direzione precisa (da ascoltare e riascoltare gli scatti degli archi nella cavalcata infernale), con la quale ha invitato i solisti a “lavorare per sottrazione”, rendendo il canto meno melodrammatico, antiretorico.
Michieletto, come sempre assistito dal bravissimo scenografo Paolo Fantin, sceglie di scansionare la drammaturgia in episodi della vita di Faust, questo giovane uomo condannato all’autodistruzione. Faust è presentato come un adolescente tormentato, vestito con una felpa e jeans, con istinti suicidi, alla deriva. Margherita, vestita di rosso, diventa un presenza, costante, fin dall’inizio e rappresenta l’amore ideale. Mefistofele, il grande corruttore, indossa un doppiopetto bianco e si presenta come un diabolico imbonitore. Pavel Černoch è un intenso e tormentato Faust, Veronica Simeoni assolve al meglio anche la grande prova d’attrice che le ha chiesto Michieletto, Alex Esposito è sempre superlativo, istrionico, perfetto in scena e anche dietro le quinte, dove lo segue l’occhio della telecamera.
I personaggi si muovono su una scena fredda e spoglia, quasi sempre seguiti da un operatore che con la steadycam riprende da vicino dettagli che il pubblico vede proiettati su un grande schermo. Michieletto fa apparire, come attori, anche i genitori di Faust e due bambini, tenerissimi, vestiti come Faust e Margherita. Per tutto lo spettacolo il coro preparato da Roberto Gabbiani, impeccabile sia nelle parti demoniache che nei canti di ispirazione religiosa, resta fermo nella parte alta del palcoscenico, seduto, come se fosse nella cantoria di una cattedrale.
Anche se non tutte le soluzioni registiche di Michieletto sono di facile e immediata comprensione (e la sera della “prima” non è mancata qualche isolata contestazione), lo spettacolo (poco più di due ore senza interruzione) avvince dalla prima all’ultima scena e rimane a lungo nella testa e nel cuore, fino a far venir voglia di rivederlo.
Si replica fino al 23 dicembre.
(foto di Yasuko Kageyama)